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Perché i terroristi abbandonano la lotta armata

Fin dall’11 settembre, il mondo politico, i servizi di intelligence e i mass media hanno sempre teso, e tuttora tendono, ad analizzare il fenomeno del terrorismo dal punto di vista della radicalizzazione. Ora il processo si sta invertendo: la de-radicalizzazione e l’uscita dal gruppo terroristico giocano, e giocheranno sempre più, un ruolo fondamentale nel futuro politico del nostro pianeta.

L’ABBANDONO DEL GRUPPO – Qualsiasi sia la motivazione che spinga un individuo a entrare in un gruppo armato terroristico, può verificarsi che un attivista decida di rinunciare alla violenza, lasciare il gruppo e rigettare una visione estremista. Le motivazioni che spingono un individuo a farlo sono numerose e se da un lato rientrano nella sfera personale, come il desiderio di condurre una vita più autonoma e normale, dall’altro lato sono legate alla perdita di credibilità degli ideali e del gruppo stesso. In alcuni casi si scatenano anche in seguito a eventi particolari, come il fallimento di un attentato progettato minuziosamente o l’uccisione deliberata di numerosi innocenti, soprattutto donne e bambini. In aggiunta a ciò vari elementi possono avere un peso:

  • Tra le varie pressioni psicologiche che vengono effettuate all’interno del gruppo, la limitazione della libertĂ  personale di opinione. La capacitĂ  di giudicare dell’individuo viene infatti assorbita e sospesa, in favore di quella collettiva.
  • Una forte persecuzione da parte della polizia e una massiccia propaganda sociale proposta dal Governo centrale con l’obiettivo di screditare il gruppo in questione.
  • L’essere stato relegato a compiti meno nobili all’interno del gruppo o l’estromissione totale, che possono rompere l’aura di ideale attorno all’azione estremista e portare a una riconsiderazione delle scelte fatte.
  • In caso di arresto, la presenza di un programma governativo valido di recupero durante il periodo di prigionia.

LA DE-RADICALIZZAZIONE IN EUROPA: ETA… – Analizzare le dinamiche di abbandono degli individui nei principali gruppi terroristici del vecchio continente significa esaminare ad esempio i casi spagnolo e nordirlandese. Per quanto riguarda la prima, la TransiciĂłn Española ha incoraggiato una divisione all’interno del blocco ETA (Euskadi Ta Askatasuna), in ETA (pm) ed ETA (m). Gli ex ETA (pm) erano decisi nell’abbandonare il gruppo, ma anche consapevoli dei rischi che la vita da cittadino normale potesse riservare. Lo Stato si è fatto carico di queste persone decise ad abbandonare la lotta armata tramite l’offerta di partecipazione ad appositi programmi di inserimento sociale promossi dalla Corona spagnola in cambio del definitivo abbandono del terrorismo. Le persone che hanno scelto questi programmi di inserimento hanno anche ricevuto benefici dal punto di vista delle concessioni legali, come la possibilitĂ  di rientrare liberamente in Spagna e nei Paesi Baschi. Nonostante l’abbandono delle armi da parte di ETA, avvenuto il 20 ottobre 2011, il movimento continua comunque a operare illegalmente nei Paesi Baschi: la Corona Spagnola promuove perciò ancora i programmi di reintegro per gli ex etarras.

…E IRA – Il conflitto nordirlandese ha iniziato a diminuire di intensitĂ  a partire dalla tregua di due anni del 1994-1996, che ha posto le basi per il celebre accordo del Venerdì Santo del 1998. Da quel momento in poi sono state poste le basi per un iniziale smantellamento dell’IRA (Irish Republican Army) nelle sue varie divisioni OIRA (Official Irish Republican Army) e PIRA (Provisional Irish Republican Army): sono fiorite infatti numerose associazioni, come la Niacro (Northern Ireland Association for the Care and Resettlement of Offenders) che si propongono di recuperare gli ex-terroristi pentiti del loro passato e delle loro azioni in cambio di educazione, programmi di inserimento e avviamento al lavoro. Anche prima degli anni Novanta si erano verificati casi di abbandono dell’IRA, ma non erano stati supportati da nessuna Istituzione, cosa che aveva finito per favorire il processo opposto, ovvero il ritorno nel gruppo terroristico.

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Una canzone “esplosiva” o il segno di un passaggio verso la conduzione di una vita normale?

LA DE-RADICALIZZAZIONE IN AMERICA LATINA – La de-radicalizzazione nel continente sudamericano vede un solo Stato, la Colombia, ad affrontare casi specifici. I risultati più efficaci sono stati resi possibili solo grazie alla forte volontà del singolo di abbandonare le armi, come nel caso delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia). Il regolamento interno prevede l’impossibilità di ammettere persone estranee al gruppo, soprattutto in zone segrete, compresi mogli e mariti dei militanti, a eccezione di una loro volontaria adesione e partecipazione alla lotta armata. La ripetuta infrazione di questa regola da parte del Estado Mayor Central ha provocato l’abbandono del gruppo da parte di alcuni membri. Un esempio di de-radicalizzazione collettiva è quello del gruppo armato AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), che ha sperimentato una notevole perdita di uomini a seguito di ordini provenienti dall’alto di sciogliere alcune unità e integrarle in altre. In questo caso, la sensazione di essere considerati come delle pedine da muovere a piacimento ha portato diversi militanti ad abbandonare deliberatamente il gruppo o comunque ha fornito l’occasione giusta per lasciare le armi: molti infatti non sono più rientrati nella cellula alla quale erano stati assegnati.

HOT SPOT: PAKISTAN – Il caso pakistano presenta numerose peculiarità non riscontrabili in altre vicende. In primis la situazione politica del Pakistan non garantisce al Paese la stabilità e la continuità governativa necessarie per promuovere i programmi di recupero. La vicinanza all’Afghanistan, inoltre, ha permesso a numerosi combattenti islamici di scegliere il Pakistan come base per i campi di addestramento e ad alcuni capi illustri, come bin Laden, di eleggerlo a luogo di residenza e centro nevralgico per la preparazione al jihad. Oltre alla crescente espansione di gruppi estremistici islamici, il fatto che il Pakistan sia il Paese con il maggior numero di fedeli musulmani al mondo dopo l’Indonesia rende il processo di de-radicalizzazione di vitale importanza. Nonostante ciò, con l’eccezione del centro di de-radicalizzazione militare nella provincia di Khyber-Pakhtunkhwa, il Governo di Islamabad di fatto ha promosso pochi programmi di recupero. Per contro, alcune ONG (organizzazioni non governative) nate in Pakistan, come la Sungi Development Foundation, la Baanhn Beli e la Peace Network Pakistan, che raduna venti ONG locali, stanno compiendo enormi sforzi per fermare la radicalizzazione e favorire l’uscita dai gruppi islamici estremistici presenti nel Paese attraverso la promozione di dibattiti, consultori e programmi scolastici all’insegna della pace. La questione in Pakistan assume un’importanza strategica da un lato per le sorti del conflitto afghano e per la stabilità del Paese stesso, dall’altro come modello per lo sviluppo di futuri programmi di de-radicalizzazione negli Stati musulmani che vogliano contrastare la nascita di gruppi estremistici violenti.

LA DE-RADICALIZZAZIONE GEOPOLITICA – I programmi di de-radicalizzazione promossi nel mondo, sia da Istituzioni, sia da enti o associazioni che si occupano di reinserimento, stanno rafforzando i contatti tra le agenzie di intelligence che vedono una maggiore disponibilità nello scambio dei risultati. Questa situazione favorisce una maggiore collaborazione tra gli Stati sulla questione delicata del terrorismo e permette di sfruttare maggiori conoscenze al fine di limitarne la minaccia. Lo scambio di know-how e di storie di successo su tale tema può avere un effetto moltiplicativo che, idealmente, i Governi occidentali sperano possa trasformarsi in un’arma in più nella lotta al terrorismo.

Luca Fortini

[box type=”shadow” align=”aligncenter” ]Un chicco in piĂą
Per chi volesse essere più informato sull’argomento, si consiglia la lettura di The Psychology of Terrorism (Routledge, 2 ed., 2014), di John Horgan, il massimo esperto accademico sulla de-radicalizzazione. [/box]

Foto: Pricey

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Luca Fortini
Luca Fortini

Classe 1989, varesotto. A 18 anni lascia casa e si trasferisce a Forlì dove si laurea in Relazioni Internazionali e Scienze Diplomatiche con una tesi sul Patto di Varsavia e la NATO. In seguito, si trasferisce a Roma dove si laurea in Relazioni Internazionali con curriculum in “pace, guerra e sicurezza”, presentando una tesi sulla de-radicalizzazione dei gruppi terroristici e sul caso ETA. Arbitro di calcio per 7 anni, sogna la diplomazia e innamorato dell’area balcanica dal 2011, dopo un viaggio in Kosovo con l’Ispi. Tifoso appassionato del Brescia e di JosĂ© Mourinho, s’interessa di terrorismo, sicurezza, Medio Oriente e di geopolitica.

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