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Sette temi dopo Parigi – Le possibili reazioni

Quarto confronto di redazione sui sette temi lanciati dal nostro editoriali post attentati di Parigi. Dopo le analisi dell’accaduto, focus sulle possibili reazioni “utili”, oltre le risposte di pancia. Come muoversi ora in Medio Oriente, cosa cambiare nei nostri Paesi?

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]ALBERTO ROSSI Nei nostri primi tre confronti, l’obiettivo era osservare al meglio quanto accaduto, contestualizzare il caos Medio Oriente, cercare di analizzare al meglio la situazione attuale. Adesso eleviamo la difficoltà, perché iniziamo a discutere di temi in cui anche la “pancia” potrebbe voler dire la sua. Partiamo qui dalle reazioni possibili agli attentati terroristici. La risposta francese con i bombardamenti di Raqqa sembrava quasi inevitabile, Hollande qualcosa “doveva” fare agli occhi dell’opinione pubblica. Sull’utilità di azioni così c’è molto da discutere. Distinguiamo tra reazione “forte” e reazione “utile”: cosa può essere la seconda? Oltre la rabbia stile “uccidiamoli tutti” (sì, va bene… e dopo?), oltre i politici che illustrano con un tweet una strategia militare (“si alzino gli aerei oggi e radiamoli al suolo”), sappiamo bene come qualsiasi risposta militare voglia dire accettare di entrare in un ginepraio. E nello stesso tempo abbiamo davanti agli occhi inefficienza e inefficacia sia di azioni diplomatiche sia di strani ibridi con effetti inferiori ad un palliativo. Eppure, la mia idea personale è che una vera azione di diplomazia, con la D maiuscola, capace davvero di mettere al tavolo gli attori che contano e che possono avvicinarsi ad una risoluzione (che sono quelli che meno si vedono di buon occhio, usando un eufemismo: Usa e Russia, Iran e Arabia Saudita) ancora non ci sia stata, e quella dovrebbe essere la carta su cui investire, anche a costo di scelte difficili e sacrifici, e pur con tutte le difficoltà del caso.[/box]

LORENZO NANNETTI Anni di discussioni per dire che un intervento militare da solo non basta. Ora molti chiedono un maggiore intervento militare. L’estremismo e il terrorismo là sono il sintomo più evidente di problematiche politiche e geopolitiche. Elimina lo Stato Islamico e senza risolvere le cause sotto rinascerà qualcosa d’altro dopo poco. Forse non ci ricordiamo che per l’ISIS è stato così: un al-Qaeda in Iraq (poi ISIS) quasi completamente sconfitto nel 2009-2011 sfrutta le condizioni politiche disastrose per riprendere forza e tornare pericoloso (oltre agli aiuti esterni, vedi dopo). Vogliamo andare avanti a ripetere la stessa cosa? Alla gente dà fastidio quando si cerca di spiegare le cause profonde di queste crisi, perché implicano che paradossalmente sconfiggere militarmente lo Stato Islamico è la parte più facile… ma il lavoro da fare per risolvere la situazione complessiva è molto più lungo e complesso. E, in fondo, questo non vogliamo sentirlo, perché richiede più impegno, più tempo (si parlerebbe di anni, e non pochi), più costi.

EMILIANO BATTISTI Prima di tutto, il principio fondamentale da seguire, soprattutto “a caldo” può essere riassunto con “rimanere calmi e non perdere la testa”. Secondo: non ascoltare chi afferma “colpiamoli ovunque” o “alziamo gli aerei e bombardiamoli”, poiché questi signori non capiscono nulla di strategia militare e trascurano che qualsiasi intervento armato deve essere sostenuto economicamente e l’Europa, figuriamoci l’Italia, non se ne può permettere uno di tipo sostenuto. Trascuriamo il fatto che per sconfiggere l’ISIS sarebbe necessaria anche un po’ di fanteria… C’è poco da sperare in un’azione (di qualsiasi tipo) coordinata a livello di Unione Europea, visto che l’azione esterna di quest’ultima è inefficace, per non dire evanescente.

ANDREA MARTIRE  Quali reazioni utili: è difficilissimo rispondere, soprattutto perché penso che secondo me l’Occidente (entità vaga ed astratta) non ha capito granchè del mondo arabo, tutt’altro che unitario, e comandato da tanti attori diversi, tra gruppi, gruppuscoli, governi ufficiali e potere finanziario ed energetico. Il mondo intero oggi paga il disinteresse di Obama per l’aerea, l’incapacità di proporre un’alternativa a Putin e la frammentazione politica. L’Unione europea non può nulla, Francia, Germania e Inghilterra da sole non bastano. L’Italia è non pervenuta. Sono contrario ad azioni militari, che rischiano di condurre ad un conflitto mondiale; occorrerebbe una grande alleanza, politica e diplomatica, che punti al coinvolgimento delle popolazioni dei Paesi in cui lo stato islamico è realtà.

DAVIDE TENTORI Paradossalmente, forse la risposta migliore in questo caso è proprio la “non risposta” (mi riferisco all’ambito militare). Una immediata controffensiva militare potrebbe portare pochi vantaggi per due motivi: l’eccessiva fretta ma, soprattutto, la legittimazione che implicitamente verrebbe data al Daesh come attore sul piano internazionale. Le reazioni eclatanti sono spesso funzionali a dimostrare ad un’opinione pubblica ferita che le autorità non sono inermi, non hanno paura; ma, forse, mai come in questo caso serve pazienza. Agendo invece intensamente su tre canali. Il primo è quello dei finanziamenti al terrorismo, da tagliare con estrema precisione. Il secondo è quello della diplomazia: serve un grande sforzo condiviso per cercare di coinvolgere tutti i Paesi arabi moderati nel condannare queste azioni e cooperare attivamente per mettere l’ISIS ai margini. Il terzo è quello della cultura e dell’integrazione: è necessario un investimento serio e sostanzioso per fare sentire veramente “europeo” chi cresce o si reca nei nostri Paesi ma viene da regioni diverse. Non bastano però le belle parole o le buone intenzioni, ci vogliono programmi veri e lungimiranti basati sull’istruzione e prospettive occupazionali serie. Se non si capirà questo, dopo Daesh ci sarà qualche altra organizzazione e il problema non sarà mai davvero estirpato alla radice.

GIULIA TILENNI Per arginare il ripetersi di simili eventi sul territorio europeo, la risposta più logica sarebbe eradicare il fenomeno all’origine, bloccando l’espansione dello Stato Islamico e dei suoi accoliti. Data l’inefficacia delle risposte diplomatiche, probabilmente questo andrebbe fatto con un intervento armato, massiccio e ben pianificato (anche nelle sue implicazioni di medio periodo, quelle che sono state dimenticate negli ultimi decenni), che sembra al momento molto lontano dal venire.

MARCO BARONE Secondo me è un problema di prospettive. Visto che tutti giocano il loro ruolo, piccolo o grande, in Siria, il destino della Siria è affare comune, ISIS o meno. Una reazione forte non significa (solo) asfaltare lo Stato Islamico una volta per tutte. La grossa differenza è il come. La prima reazione forte sarebbe sedere gli Stati coinvolti attorno ad un tavolo ad oltranza, finchè la questione Siria non venga decisa a tavolino. Poi che la palla passi alle armi – seriamente, non con una presenza di circostanza per far contenti i bilanci nazionali e i partner internazionali – e si costruisca un modello di governance credibile per Siria e Iraq (se ancora si dovessero chiamare così). Il problema è: chi può farlo? A parere mio è una donna italiana: Federica Mogherini. Ha la determinazione e la preparazione per farlo, ma non ne ha facoltà. A meno che il Consiglio Europeo non decida di conferirgliela, i Trattati lo consentirebbero (art.42 TUE) ma tali prerogative non sono mai state utilizzate per mancanza del necessario consenso. L’Unione Europea ha una massa critica più che sufficiente per poter realizzare il tavolo politico necessario, sulla scia dei fatti di Parigi, a costringere Erdogan, Putin e Obama (volendo anche Rohani e Salman) a mettersi d’accordo su come soffocare lo Stato Islamico e intavolare una discussione sulla Siria, magari rispolverando il ruolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ma la reazione di Parigi, Mosca e Washington è stata già diversa.  È cominciato il solito carosello di “volenterosi” e un approccio che, per quanto radicale vista la gravità della situazione, rimarrà sempre parziale rispetto all’insieme. La Francia, pur forte e determinata, non ha peso politico sufficiente per dettare l’agenda futura, al massimo potrà influenzarla maggiormente. Parigi apre un nuovo capitolo sul terrorismo in Europa, ma la Francia in primis continua ad affidarsi alle stesse soluzioni che, ad oggi, si sono rivelate inadeguate. Se i morti di Parigi non serviranno come spunto per un nuovo approccio, più completo e credibile, la morte di queste persone rappresenterà una turbolenza e non un punto di svolta.

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]ALBERTO ROSSI Non possiamo dire di essere tutti quanti allineati, ma mi sembra esserci una linea prevalente riguardo al fatto che una reazione militare non in grado di servire a granchè, soprattutto se non accompagnata da una forte azione diplomatica di più attori in corso. Marco pesca un jolly dalla manica parlando di Mogherini possibile protagonista: mi farebbe piacere, vorrebbe dire finalmente una vera politica estera europea. Ci credo poco, ci spero molto. Occhio però che rispondere al terrorismo non vuol solo dire affrontare il caos Medio Oriente: è qui, a casa nostra, che dobbiamo prima di tutto cambiare qualcosa.[/box]

SIMONE PELIZZA  Di certo non esistono formule magiche per combattere il terrorismo; si possono solo avanzare alcune proposte per contenere il fenomeno e garantire la sicurezza collettiva, nella speranza che siano fattibili e prive di troppi “danni collaterali”. Anzitutto la Francia deve riformare completamente i propri servizi di sicurezza, perchè in meno di un anno essi hanno fallito ben due volte nel proteggere i propri cittadini da attacchi terroristici sul territorio nazionale, con conseguenze devastanti in termini di vite umane perse e di danni all’immagine internazionale del Paese. Poi si devono promuovere a livello europeo vasti programmi sociali ed educativi contro la radicalizzazione dei giovani musulmani, riaffermando i valori democratici del nostro continente e contribuendo allo sviluppo di un Islam veramente integrato con tali valori. I musulmani contrari all’estremismo sono tanti e vanno coinvolti attivamente nelle iniziative politiche e intellettuali contro il jihadismo. Allo stesso tempo bisogna smetterla di tollerare l’azione di predicatori oltranzisti e dei loro fiancheggiatori mediorientali, imponendo il rispetto delle proprie leggi e del proprio contesto culturale. Solo così si potrà limitare l’influenza di ISIS e altri gruppi terroristici in Europa, facilitando una loro sconfitta definitiva nel prossimo futuro.

BENIAMINO FRANCESCHINI – Qualsiasi reazione deve essere prima di tutto subordinata al ritorno della ponderazione. I terroristi vogliono che rigettiamo i nostri valori e noi, gli europei di Kant, non possiamo permettercelo. La vera partita si gioca poi nella società, a cominciare dal rapporto con i nuovi cittadini. Il primo inevitabile passo è prendere la questione dell’arrivo dei migranti in modo serio e responsabile. Non possiamo solo aprire le frontiere e aspettare che la solidarietà costituzionale compia il miracolo. Ci sono problematiche sociali da gestire. C’è il rischio di un aggravio ingestibile della spesa pubblica. Bisogna garantire la parità delle condizioni dei migranti con i cittadini. Allo stesso modo, chi arriva deve comprendere dove si trovi e che cosa sia permesso e proibito. È il covenant dell’accoglienza: l’antichità classica è esemplare nell’illustrare i diritti-doveri dell’ospitalità. Altra questione riguarda i fenomeni di radicalizzazione: dove si formano i terroristi? Non nelle moschee, non nelle comunità musulmane integrate, bensì su internet, in carcere, nelle periferie, laddove il vuoto interiore delle nuove generazioni, piagate da crisi economica e mancanza di appartenenza, è un catalizzatore formidabile. Non ci sono antidoti, se non la costruzione di una società basata sulla cultura giuridica europea, senza pregiudizi, ma senza che si chiudano musei o si imponga l’allungamento delle gonne. Oltretutto è proprio la normalità dei rapporti a essere chiesta dalla maggioranza dei musulmani e osteggiata dagli urlatori (islamici e islamofobi). Le Costituzioni europee tutelano libertà e diritti: tanto basta come punto d’inizio, purché ci sia la volontà di collaborare all’integrazione da ogni parte, compresa l’accettazione delle diversità nell’ottica della supremazia dello Stato di diritto. Terzo aspetto, il contrasto a estremismi di ogni genere. Su questo è basilare il contributo delle comunità islamiche, che troppo poco stanno facendo per la lotta al fondamentalismo. È comprensibile che ci siano ritrosie a denunciare personaggi pericolosi, ma non si può nemmeno affermare che lo scarso numero di segnalazioni derivi dall’assenza di casi specifici. I modi per emarginare gli elementi deviati ci sono. Altrimenti torniamo ai “compagni che sbagliano”. Infine è necessaria una lotta senza quartiere all’antisemitismo rampante, che spesso accomuna gruppi altrimenti divisi.

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]ALBERTO ROSSI  Un ultimo passaggio mi sembra qui importante. Abbiamo ristretto il cerchio dalla reazione in Medio Oriente a quella in casa nostra, nei nostri Paesi; farlo ulteriormente significa anche parlare di noi stessi. Rispondere al terrorismo vuol dire anche non farci condizionare e tenere salde le nostre libertà…[/box]

PIETRO COSTANZO Ai tempi dell’11 Settembre si diceva che uno degli sforzi maggiori e più difficili da compiere sarebbe stato quello di non cambiare i nostri stili di vita. Ad esempio, oggi, chiudere le frontiere francesi sembra una reazione ovvia, potrebbe esserlo anche per altri Paesi. Ma per quanto tempo? Serve attenzione: ci abbiamo messo decenni a conquistare la libera circolazione in Europa, e la potremmo perdere in pochi mesi. E questo è solo un esempio.

GIULIA TILENNI Infatti secondo me la prima risposta, forse un po’ utopica ma fattibile, dovrebbe proprio essere sul fronte psicologico: “Tu mi hai colpito? Io non solo ti mostro che non sei in grado di spaventarmi, ma ti ricordo che attaccare Parigi non è solo attaccare una città o un Paese, ma è colpire l’Europa, cioè 28 Paesi e circa 750 milioni di persone”. Ma questo non mostrando solidarietà tramite bandiere o frasi sui social network, ma continuando a vivere le proprie vite (nonostante i suggerimenti, in questi giorni i francesi stanno continuando a popolare la propria città, proprio per mostrare che sono stati piegati, ma non spezzati) e…viaggiare! Se poi, oltre ai cittadini europei, fossero i politici europei a ricordarsi, in fase decisionale, che il motto dell’Unione è “uniti nella diversità”, avremmo già acquisito un notevole “potenziale di ricatto”. Ma questa, almeno al momento, sembra un’utopia…

La Redazione

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