Lo scorso 5 marzo con una mossa senza precedenti Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti hanno ritirato i propri ambasciatori dal Qatar. Tanto le ragioni sottese quanto le probabili conseguenze di questa azione si rivelano fondamentali per il Golfo e per il Medio Oriente intero.
IL RITIRO DEGLI AMBASCIATORI – Sono settimane cariche di tensione per la diplomazia del Golfo. Pochi giorni fa la triade composta da Arabia Saudita, Bahrein ed EAU ha reso pubblico il ritiro dei propri ambasciatori da Doha. La ragione primaria sarebbe stata l’ingerenza del Qatar nella politica interna dei tre Paesi. Una dichiarazione congiunta di Riyadh, Abu Dhabi e Manama ha rivelato l’insofferenza verso il sostegno fornito dal Qatar a gruppi considerati terroristici dai tre Paesi, quali, prima tra tutti, la Fratellanza, ma anche Hamas, Jabhat an-Nusra e ISIS. Recentemente si è aperta anche la questione dei ribelli Huthis nello Yemen del Nord, una minoranza sciita in uno Stato che dovrebbe entrare nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) entro il 2016, e di Al-Islah, ramo degli Ikhwan nel Golfo. Col sostegno, in gran parte finanziario, a tali formazioni, il Qatar minerebbe la stabilità di ogni membro del Consiglio, di cui fanno parte, oltre agli Stati coinvolti nella schermaglia diplomatica, Oman e Kuwait. Se l’interpretazione delle mosse del Qatar come ingerenze non è unanime, è tuttavia indubbio che Doha conceda asilo e cittadinanza a molti nordafricani, siriani e arabi del Golfo non graditi nei Paesi circostanti, che finanzi le componenti islamiste sopra citate, e che abbia recentemente costituito in alcuni contesti regionali, Egitto in primis, una voce fuori dal coro del CCG. Le tensioni erano entrate in fase apicale già al tempo della presidenza di Morsi in Egitto, durante la quale l’emittente qatariana Al-Jazeera forniva una copertura sul Paese nordafricano fortemente a favore degli Ikhwan, tendenza poi accentuatasi con la deposizione dello stesso Morsi. Molti suoi giornalisti sono oggi sotto processo in Egitto per essere membri o simpatizzanti della Fratellanza, tornata illegale nel dicembre 2013. Sul versante degli aiuti finanziari, inoltre, Doha ha fornito all’Egitto un totale di 6 miliardi di dollari, annullati poi alla deposizione di Morsi. In un noto gioco di specchi, in seguito è stata la rivale Arabia Saudita il maggior elargitore d’aiuti al Paese, con circa 5 miliardi di dollari.
ALTRI TERRENI DI SCONTRO – La rivalità tra Arabia Saudita e Qatar non si limita però all’Egitto, alla Siria e al Golfo stesso. Un ulteriore contrasto riguarda i rapporti con la Turchia: secondo le dichiarazioni congiunte di Riyadh, Abu Dhabi e Manama, il Qatar avrebbe optato per un coordinamento sempre maggiore con Ankara a spese degli altri attori del Golfo, da sempre ostili alle ambizioni turche nella regione. La Turchia non fa mistero di sostenere la Fratellanza, ma un secondo motivo di tensione sono alcune voci secondo cui le intelligence di Doha e Ankara stanno collaborando nella costituzione di una rete spionistica congiunta nel Golfo, al fine di conoscere e controbilanciare ogni azione anti-Ikhwan nell’area. Ancor più dei soli aiuti finanziari, dunque, se confermata sarebbe questa progressiva sinergia Qatar-Turchia a violare il principio di non interferenza negli affari interni dei Paesi del Golfo. La battaglia tra l’egemonia saudita e gli Stati verso questa compiacenti da un lato e la provocatoria condotta qatariana dall’altro è anche mediatica e comunicativa. Lo dimostra il ruolo ricoperto da Al-Jazeera, ma anche il caso di Youssef al-Qaradawi, il religioso d’origine egiziana e cittadino del Qatar che nel programma As-shari’a wa al-hayat, “La sharia e la vita”, in onda proprio su Al-Jazeera, non perde occasione di scagliarsi contro i Paesi del Golfo avversi alla Fratellanza, tacciandoli di comportamento contrario all’Islam.
LA REAZIONE DI DOHA – Le reazioni paiono votate alla mediazione e il Consiglio dei Ministri ha recentemente ribadito di voler mantenere legami di fratellanza con gli altri popoli del Golfo. L’inedita mossa congiunta non è stata infatti imitata da Doha, che ha scelto di non ritirare i propri ambasciatori. Un altro segnale di distensione è arrivato con le dimissioni del primo ministro Hamad Bin Jassem, fautore dell’autonomia in politica estera perseguita negli ultimi anni.
SVILUPPO E QATARIZZAZIONE VERSO IL 2022 – Il Qatar non è esente da preoccupazioni interne, pur essendo stato classificato lo scorso anno come terzo Stato più ricco al mondo, con un PIL pro capite di oltre 99 mila dollari. L’imperativo resta la prosecuzione dei progetti di diversificazione delle entrate: tra il 2016 e il 2030 si prevede di destinare il 2,8% del PIL a piani di sviluppo eco-sostenibili, ma grandi investimenti si vedono già nella sanità , nel turismo e nelle infrastrutture. A tale proposito il progetto maggiore riguarda i mondiali di calcio del 2022, tema che conduce a quello dei lavoratori migranti. I nepalesi morti nei cantieri di Qatar 2022 sono già più di 400. Se si pensa che costoro sono solo il 20% degli operai stranieri, le stime spaventano ancor di più, attirando su Doha le denunce delle organizzazioni per i diritti umani. Quella che da più parti è definita strage silenziosa di migranti è correlata alla cosiddetta “qatarizzazione”: con una popolazione di 2 milioni di abitanti di cui solo il 10% cittadini, è evidente quanto il Qatar dipenda dai lavoratori stranieri. Per ridurre le potenziali vulnerabilità di tale sistema è stato avviato da alcuni anni un processo di qatarizzazione del lavoro, con l’obbligo per i privati di assumere quote fisse di cittadini.
PROBABILE EPILOGO – Alla luce dell’attuale scenario nel Paese e delle reazioni moderate dopo la mossa dei tre Stati vicini, la componente più giovane della classe dirigente, guidata dall’emiro Tamim (il padre Hamad bin Khalifa al-Thani, uno dei falchi dell’indipendenza decisionale del Qatar abdicò in suo favore nel 2013), sembra adottare posizioni interlocutorie. Appare verosimile che sul breve periodo Doha torni a piegarsi all’ombra saudita, accantonando, almeno in parte, l’aspirazione di accrescere la propria autonomia e l’incisività in politica estera.
Sara Brzuszkiewicz