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La crisi ambientale mondiale

I libri del Caffè – Le radici della recessione globale si annidano nella insostenibilità dei modelli di produzione e consumo, specie sotto il profilo ambientale

di Massimo Zortea

AMBIENTE E SOCIETA’ – Gran parte della popolazione mondiale, ma oramai anche il pianeta Terra in se stesso, vivono anni molto difficili. Le difficoltà tradizionali, legate ai profondi squilibri socio-economici, un tempo fra continenti ed oggi sempre più diffusamente fra strati sociali diversi del medesimo Stato nazionale, si affiancano ora ad una crescente sofferenza dello stato di salute ambientale.

Giova innanzitutto chiarire la nozione stessa di ambiente, ai fini e nella cornice della cooperazione internazionale. Sul versante politico possiamo attingere alla definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quale “insieme degli elementi fisici, chimici, biologici e sociali che esercitano una influenza apprezzabile sulla salute ed il benessere degli individui e delle collettività”, sul versante giuridico appare interessante anche quella fornita, per il vero quasi incidentalmente, dal c.d. Testo Unico dell’Ambiente italiano (D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia ambientale, art. 5, lettera c), seconda parte): “sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici”.

Quale che sia la più appropriata definizione, essa resta complessa e controversa, come nota Cordini, ma l’ambiente esige una attenta tutela politica e giuridica, a più livelli, in quanto “componente essenziale per la conservazione delle migliori condizioni di vita delle comunità di uomini” (Cordini, 2002, p. 14). Soprattutto, necessita di una tutela sovranazionale, attesa la dimensione internazionale delle questioni ambientali: si tratta infatti di fenomeni planetari, con cause ed effetti globali, che pongono problemi globali e richiedono soluzioni altrettanto universali. Vi è dunque una consistenza sovranazionale dell’ambiente, ma si registra oramai anche una sensibilità ed eticità che travalica i confini nazionali.

L’UOMO AL CENTRO – Fondamento alla universalità della questione ambientale è la centralità delle persone e della tutela delle persone, che pone in se stessa un limite alla sovranità degli Stati nazionali e alle loro scelte. Del resto i beni ambientali sono patrimonio comune dell’umanità, res omnium come lo è ad esempio da sempre il mare extraterritoriale: beni soggetti ad un diritto comune di fruizione ma anche tributari di un dovere altrettanto universale di protezione e cura.

In questa dinamica di fruizione è però indiscutibilmente in atto un pesante “conflitto fra ecosfera e tecnosfera”, come ci ricorda ancora il Cordini, che pone oggi il pianeta di fronte a rischi talmente elevati da metterne in dubbio persino la stessa sopravvivenza. È davvero un mondo al bivio, per riprendere un interessante definizione di L.R. Brown (cfr. Brown, 2011): sull’orlo del collasso ambientale ed economico insieme.

Da un lato, vi è una umanità energivora che consuma, ogni minuto secondo, quasi 1.000 barili di petrolio, 93.000 metri cubi di gas naturale e 221 tonnellate di carbone (cfr. Armaroli – Balzani, 2011) ed al tempo stesso realizza un prodotto globale lordo all’anno superiore ai 70.000 miliardi di dollari (cfr. IMF, World Economic Outlook, varie annate). Dall’altro quella stessa umanità mette a repentaglio in modo pesante e tangibile i quattro principali sistemi biologici mondiali, ovvero le zone di pesca oceaniche, i pascoli, le foreste e le terre coltivate, e si lascia andare a sprechi di enormi proporzioni, come quello del cibo: ogni anno si perdono a livello mondiale circa 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo (cfr. Segrè e Falasconi, 2011).

A TUTTO C’E’ UN LIMITE – Il problema di fondo è la scarsa attenzione al limite della capacità produttiva dei sistemi naturali nel globo: “per il XXI secolo il mondo ha bisogno di un sistema economico in sintonia con la Terra e i suoi sistemi di supporto naturali, non di un sistema che ne causi la distrazione”, attraverso una strategia politica globale definita da L.R. Brown “piano B”, ossia: stabilizzazione del clima e della popolazione, eliminazione della povertà e ripristino dei sistemi naturali di supporto all’economia (Brown, 2011).

I segnali di una consunzione ambientale superiore alla capacità di rigenerazione sono molteplici e si traducono in anomalie sempre più eclatanti e frequenti: basti ricordare la tremenda estate 2010 di siccità nella altrimenti gelida Russia, che ha lasciato dietro di se migliaia di incendi, moltissimi decessi, danni economici stimati in non meno di 300 miliardi di dollari; a fargli da contraltare, le inondazioni di proporzioni bibliche che flagellarono nello stesso periodo il Pakistan, causate non solo dalle piogge torrenziali ma anche dalla ormai sempre più rapida fusione dei ghiacciai del Himalaya occidentale, con un incontenibile aumento della portata del fiume Indo.

UNA PESANTE IMPRONTA – Vi è tutta una fenomenologia della crisi ambientale potentemente balzata all’attenzione anche mediatica, che spazia dall’esaurimento delle riserve idriche, in particolare dei bacini acquiferi sotterranei, alla erosione del suolo, con l’estendersi dei deserti, la moltiplicazione di tempeste di polvere anche in aree urbane densamente abitate (ad es. quella su Pechino del marzo 2010), il ritorno di grandi Dust Bowl quali quella centroasiatica e quella del Sahel, alla maniera di quella storica del Middle West statunitense degli anni Trenta, sino all’aumento delle temperature ed alla conseguente fusione dei ghiacci polari e dei ghiacciai montani, con episodi bandiera come quello del distacco di un iceberg colossale da 156 km quadrati.

Si è, secondo molti studiosi, oramai prossimi al limite di irreversibilità, ma per altri lo si è già oltrepassato, dato che l’impronta ecologica rilevata ha superato del 20% la soglia di resilienza (cioè di rigenerazione delle risorse consumate) e pare nel 2007 abbia raggiunto addirittura il 50%. Del resto, da tempo gli esperti di economia ecologica ritengono l’Ecological Footprint un indicatore molto eloquente ed efficace della salute mondiale (cfr. Cafagno in Dell’Anno e Picozza, 2012, p. 531).

Altrettanto ben percepibili ed invero anche percepiti sono gli effetti di questi fenomeni a scala planetaria. I tre effetti forse di maggiore impatto, specie ai peculiari fini della presente indagine, sono: insicurezza alimentare, se non addirittura fame (il numero di persone che soffrono la fame, sceso al minimo storico negli anni Novanta, è tornato a salire sopra il miliardo), rifugiati ambientali (ovvero persone che abbandonano le proprie terre di origine per vari ordini di motivi: innalzamento dei mari, aumento delle temperature, desertificazione, esaurimento delle falde acquifere, deposito di rifiuti pericolosi) e Failed States (gli Stati allo sbando politico ed economico, che diventano fattore di instabilità regionale e catalizzatore di problemi sociali e politici a largo raggio).

(estratto da M. Zortea, Integrazione ambientale nei progetti di sviluppo, Franco Angeli, Milano, 2013)

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