Focus Egitto – Lo scenario egiziano è in completa evoluzione. Le dimissioni di Mubarak sono cronaca, e già storia. Impossibile fare previsioni ora. È importante però notare come alcuni grandi attori internazionali guardino a quanto sta avvenendo. Ieri, nella prima parte di questa analisi, abbiamo visto il ruolo degli Stati Uniti. Oggi tocca ad altri tre grandi attori. E allora, occhi puntati su Israele, che si preoccupa, e sull'Iran, che gongola. L'Europa? Non pervenuta. E sì che il Mediterraneo era il Mare Nostrum…
(segue da L'enigma della sfinge)
LA PARANOIA ISRAELIANA – Israele è l’attore che, dopo Washington (o forse ancor di più), è maggiormente preoccupato per ciò che sta accadendo. Così come per gli Stati Uniti, vi è dire un appoggio sicuro ad alcune proprie politiche, fondato su un reciproco riconoscimento. Israele ha in Mubarak uno dei pochi interlocutori nell’area. Più che con Mubarak, si dovrebbe dire proprio con quel Suleiman nominato vice-Presidente e papabile uomo traghettatore verso una nuova fase. Tel Aviv, però, vede anche nel Cairo l’unico vero freno al propagarsi dell’influenza di Hamas, sia a livello politico che logistico. Il governo egiziano controlla una parte del valico di Rafah, al confine con la Striscia di Gaza, ed è proprio l’Egitto che sta costruendo dei muri sotto terra per evitare il contrabbando di armi e persone tramite i famosi tunnel che collegano il Paese alla Striscia di Gaza. Più di una volta le Forze di Sicurezza egiziane hanno sparato e ucciso cittadini palestinesi che valicavano senza permesso il confine. Inoltre, alcune rotte di rifornimento per Hamas passerebbero dal Mar Rosso, rendendo il controllo egiziano cruciale per una tattica di contro-insurrezione e prevenzione del traffico illecito verso la Striscia. Talmente cruciale che, spesso, lo stesso Egitto è stato accusato di essere complice delle politiche israeliane nei confronti dei Palestinesi, da parte di più di un attore arabo. Israele non ha fatto mistero del fatto che a tutti i costi vorrebbe che Mubarak rimanesse al potere, perché la sua politica e le sue relazioni esterne sono da sempre basate su un unico, assillante e a volte accecante concetto: la sicurezza. E per Tel Aviv sicurezza vuol dire stabilità ai propri confini, ciò che sembra nuovamente mancare da un po’ di tempo a questa parte.
Israele è attualmente al centro di almeno due zone scottanti e altrettante perlomeno calde: Libano ed Egitto, Palestina e Giordania. Il Libano è di nuovo a rischio destabilizzazione, dopo la caduta del governo Hariri e la nomina di Mikati come nuovo Primo Ministro, il tutto con la spada di Damocle del Tribunale Internazionale sull’assassinio di Rafiq Hariri che pende sulla pace del Paese. L’Egitto, al confine con la Striscia di Gaza, è ormai nel caos e, qualunque sarà l’esito della situazione, Israele avrà ai propri confini meridionali un Paese, almeno nel breve periodo, indebolito. A ciò si aggiunga la rabbia palestinese scatenata dalle rivelazioni circa i negoziati tra Fatah e gli Stati Uniti e una Giordania in cui le manifestazioni di piazza non sembrano per il momento mettere in discussione la monarchia hashemita, ma se non altro sono sintomo di un malessere diffuso. Israele è in mezzo a tutto ciò, come non nutrire preoccupazioni? Anche alla luce della crisi politica interna che ha visto il Labour porre le basi per la sua definitiva scomparsa dal panorama politico e dei dissidi che hanno contraddistinto i primi due anni di Presidenza Obama con gli Stati Uniti, Tel Aviv ha le sue buone ragioni per non sentirsi sicura. E quando Israele non si sente sicuro, nella regione potrebbe accadere di tutto.
L’EUROPA RESTA A GUARDARE – Il momento è dunque quanto mai cruciale per il futuro degli equilibri mediorientali e, adesso che a bruciare non è solo la piccola Tunisia, ma l’Egitto, si può dire. L’unico attore che sembra ancora stordito da tali avvenimenti, al punto da non esercitare un’effettiva ed efficace influenza sui Paesi del Mediterraneo meridionale e quasi da non esprimere un’opinione propria, sembra essere quello che in realtà dovrebbe preoccuparsene maggiormente: l’Unione Europea. L’UE ha interessi, eccome, nell’Egitto e non dovrebbe essere questa analisi a ricordarlo ai decisori della politica estera comune (poco estera e poco comune, a dire il vero). Prima di tutto, il retaggio storico-culturale: si pensi solo al fatto che la stessa storia del Medio Oriente moderno, per convenzione, si fa partire dal 1798, anno in cui Napoleone invase l’Egitto, dando il via, per reazione, al processo di modernizzazione dell’area (guarda caso partito sempre dall’Egitto ad opera dell’illuminato Mehmet Ali Pasha). Da non dimenticare, venendo al secondo dopoguerra, che l’Egitto è anche il terreno su cui Francia e Gran Bretagna hanno sparato le loro ultime cartucce circa l’interesse coloniale e la possibilità di mantenere un minimo di influenza sul Medio Oriente, prima di lasciarlo del tutto nelle mani degli Stati Uniti: la Guerra di Suez del 1956 ha suggellato tale passaggio di consegne. Ancora oggi, comunque, Parigi risulta essere uno dei maggiori investitori stranieri nel Paese, con un flusso che è arrivato anche a superare i 10 miliardi di dollari annui, a testimonianza della volontà di Sarkozy di riportare Parigi in Medio Oriente.
E poi l’economia: si pensi che attraverso il Canale di Suez passa una buona fetta del commercio internazionale via mare e, per motivazioni geopolitiche evidenti (la vicinanza delle due sponde del Mediterraneo, di cui quella settentrionale è in Europa), l’UE è interessata in prima persona. O almeno lo sono e lo dovrebbero essere alcuni Stati membri: più del 70% del traffico totale che, dal Mediterraneo in direzione Sud passa attraverso il Canale di Suez, proviene infatti da Italia, Spagna, Paesi Bassi e Regno Unito. Cifre che rendono meglio l’idea dell’importanza strategica dell’Egitto, a cui si somma il fatto che sul territorio egiziano, via Canale o oleodotto, passano circa 3 milioni di barili di petrolio al giorno, diretti verso l’Europa: quasi il 20% del consumo totale di tutta l’UE. Solo l’italiana ENI ha in Egitto circa il 13% della propria produzione totale di petrolio. Cifre che dovrebbero allarmare chiunque, nel momento in cui il Paese cade verso un’instabilità che non ha precedenti nella sua recente storia. Anche le politiche di sicurezza e migrazione vedono Bruxelles direttamente coinvolta: non è un mistero che, adesso che le coste libiche sembrano essere molto più pattugliate, il traffico dell’immigrazione clandestina in Europa potrebbe trovare proprio attraverso l’Egitto nuove rotte. Anche nel caso dell’UE, più l’Egitto è importante dal punto di vista geopolitico e strategico, più si fanno investimenti materiali e politici sul Paese e più c’è apprensione di fronte ad una crisi come quella odierna. O dovrebbe esserci perlomeno. Nei fatti, a parte qualche dichiarazione, l’UE, distratta dall’allargamento verso Est e forse convinta che la sponda Sud del Mediterraneo fosse ormai “conquistata”, negli ultimi anni non ha ancora sviluppato una politica di lungo termine nell’area. E il vuoto che va formandosi rischia di essere quanto mai profondo. Un maggiore impegno in quest’area del mondo e del proprio vicinato sembra essere una priorità di fronte alla quale urgono risposte in tempi brevi.
A TEHERAN SI GONGOLA – Ma non solo cattive notizie, o almeno non per tutti, arrivano da Piazza Tahrir e dintorni. C’è anche chi, probabilmente, guarda a questa crisi con una certa soddisfazione, e ciò di nuovo turba i sonni di Obama, di Israele e degli europei: l’Iran. Teheran e Il Cairo sono ormai ai ferri corti già da anni, proprio come conseguenza dell’allineamento egiziano alle politiche occidentali e del mai sopito scontro politico-culturale per l’egemonia del mondo musulmano, in cui l’Iran persiano e sciita si contrappone all’Egitto e all’Arabia Saudita, arabi e campioni dell’ortodossia sunnita. E la contrapposizione, se è vero che due anni fa cellule di Hezbollah sono state arrestate in Egitto con l’accusa di pianificare attentati sul suolo egiziano, non sarebbe soltanto ideologica. Teheran assiste da anni al logoramento del soft power dell’Egitto, Paese che era al centro dell’asse con Arabia Saudita e Giordania per la risoluzione delle controversie diplomatiche regionali e che da un po’ di tempo sembra non aver più il peso specifico di una volta, come già detto. E ciò a favore di nuove realtà come il piccolo Qatar, l’ormai affermata Turchia e la Siria che, pian piano, sta rientrando nei ranghi della comunità internazionale. Tutti attori con cui Teheran dialoga e intrattiene rapporti privilegiati. Meno Egitto uguale più Iran, dunque. A meno che non avvenga una transizione democratica talmente perfetta e limpida da indurre lo stesso regime iraniano a ritenere che sia pericolosa la ripercussione degli eventi egiziani sulla propria società civile. Ma nel breve-medio periodo, l’Iran ne esce vincitore. Senza colpo ferire. E non è un caso, ma fa parte della tattica della “guerra di nervi” di Teheran con i suoi competitori, se il Ministro degli Affari Esteri iraniano Ali Akbar Salehi si sia lanciato in una profezia: “la rivolta in Egitto creerà un Medio Oriente islamico”. Per il momento ancora tutto sembra possa ancora accadere, ma la posizione di Teheran, in tale congiuntura, è sicuramente privilegiata, rispetto a quella statunitense, israeliana ed europea.
Stefano Torelli [email protected]