Sullo sfondo della presenza cinese in Sudan e Sud Sudan il portavoce del Ministero della Difesa, Geng Yansheng, ha recentemente riaffermato l’importanza che Pechino attribuisce alla difesa delle missioni di pace all’estero. Il crescente coinvolgimento cinese nel regime di peacekeeping delle Nazioni Unite cela gli interessi di un Paese che vuole apparire agli occhi della comunità internazionale portatore di un messaggio di pace
LA COLOMBA BIANCA NEL CONTINENTE NERO – Sebbene la partecipazione della Cina alle operazioni di pace delle Nazioni Unite non sia un fenomeno del tutto nuovo, in anni recenti Pechino ha iniziato a dispiegare nelle missioni ONU molti più uomini di quanto abbia mai fatto in passato, soprattutto nel continente africano. Dal totale rigetto del concetto stesso di peacekeeping che ha caratterizzato tutto il corso degli anni Settanta, l’Impero di Mezzo ne ha fatta di strada, tanto che al momento il Paese conta più caschi blu schierati in Africa di ogni altro membro permanente del Consiglio di Sicurezza.
Per quanto attualmente possa essere delicata e complessa la questione del coinvolgimento cinese nel continente nero, è difficile negare che tale partecipazione faccia parte di un piano strategico di più ampia portata di Pechino, pronta a tutelare con ogni mezzo, ancor meglio se pacifico, i propri interessi economici e soprattutto energetici.
IL CASO SUDAN – Il sostanziale supporto concesso dalla Cina alla missione di pace dell’ONU, presente in Sudan dal 2005, è stato in realtà anticipato, ben dieci anni prima dell’arrivo delle Nazioni Unite nel Paese, da massicci investimenti nella produzione petrolifera. Il sostegno economico cinese a Khartoum si è presto trasformato in aperto sostegno politico: Pechino protegge il regime sudanese dalle pressioni internazionali mirate a fermare il conflitto in Darfur anche in sede di CdS, allo scopo di assicurare alla Cina la sicurezza energetica. Più che spinta da un disinteressato contributo alla pace globale, la partecipazione della Cina alla missione in Sudan sembra quindi uno strumento pacifico di protezione dei propri interessi economici e geopolitici nella regione. D’altronde, gli investimenti nei paesi logorati da conflitti interni comportano notevoli rischi, tra cui l’esposizione dei propri cittadini al pericolo di attacchi e sequestri (come avvenuto di recente ai lavoratori cinesi rapiti in Sudan), rischi che le missioni di pace possono affievolire.
PEACEKEEPING, TRA PERICOLO E OPPORTUNITA’- Lo stesso John Fitzgerald Kennedy amava ripetere nei suoi discorsi come la parola “crisi”, scritta in cinese, fosse composta da due caratteri: pericolo ed opportunità. Errata o meno che sia l’interpretazione diffusa dal più famoso presidente degli Stati Uniti, vero è che tale espressione rispecchia in tutto e per tutto l’attuale approccio di Pechino alle missioni di pace. Nell’ultimo decennio la leadership cinese, impegnata a modificare le linee guida della politica estera del Paese per essere percepita sempre più come una grande potenza responsabile, ha realizzato quanto la partecipazione al regime di peacekeeping stia influenzando positivamente l’immagine e lo status internazionale della Cina, rendendosi così conto di quale opportunità offra il contributo alle missioni di pace nelle regioni in stato di crisi.
La protezione dei propri interessi economici e strategici all’estero non è quindi l’unico fattore trainante del recente interesse della Cina verso le operazioni di pace. Il peacekeeping si è rivelato un vero e proprio successo di pubbliche relazioni: non solo è utilizzato dalla dirigenza cinese come mezzo, relativamente a basso costo, per dimostrare che la Cina è impegnata a difendere la pace e la sicurezza globali, ma al tempo stesso mostra come la recente crescita del potere militare cinese non sia per sua natura una minaccia, attenuando così le preoccupazioni generate dalle crescenti capacità militari dell’Esercito Popolare di Liberazione.
Martina Dominici [email protected]