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Qualcosa è cambiato?

Mercoledì 30 marzo l’ex Primo Ministro Thein Sein è entrato in carica come nuovo Presidente della Repubblica dell’Unione di Myanmar (Birmania), e al tempo stesso è stata sciolta la Giunta Militare Associazione di Solidarietà e dello Sviluppo del Sindacato, a capo del Paese dal 1962. Il Presidente è stato eletto tramite una consultazione elettorale ritenuta una farsa da molti osservatori. Nonostante tutto, questo passaggio di potere potrebbe rappresentare il primo passo di un processo di democratizzazione a lungo atteso

 

REGIME POST ELEZIONI – Insieme alla nomina di Thein Sein quale nuovo Presidente, sono saliti al potere altri 30 membri nel nuovo Gabinetto, tra cui due vice Presidenti, alcuni ufficiali e Ministri eletti dal Parlamento nella sessione di febbraio. Nonostante undici membri della vecchia giunta siano, di fatto, usciti dalla scena politica, il passaggio da un potere militare a uno civile è solo formale. Infatti, nel 2008, quando per la prima volta si è parlato di elezioni, è stata approvata una legge elettorale secondo la quale il 25% dei posti in Parlamento è riservato ai militari. Il resto dei posti è stato preso da ex militari che avevano smesso l’uniforme proprio pochi mesi prima delle elezioni, tra cui i due leader della giunta, il Presidente Than Shwe e il suo deputato, il Generale Maung Aye. Come se non bastasse, sembra che la nomina di Thein Sein sia stata fortemente voluta dal suo predecessore stesso.

 

ELEZIONI LIBERE E GIUSTE – Le elezioni del 7 novembre 2010 sono le prime dopo il 1990 quando la Lega Nazionale per la Democrazia guidata dal Premio Nobel Aug San Suu Kyi ebbe la meglio. Tuttavia, tale vittoria non fu mai ratificata e accettata dalla giunta militare al vertice del paese. Vent’anni dopo, il ricorso alle urne è stato fortemente voluto dalla Giunta Militare stessa. Numerosi partiti si sono presentati al voto, tra cui il vincitore, il Partito dell’Unione, della Solidarietà e dello Sviluppo, con oltre 1100 candidati tra cui molti militari, e la Lega Nazionale per la Democrazia che ha deciso di non boicottare l’evento. Boicottaggio che è stato promosso in seguito all’esclusione della candidatura di Aung San Suu Kyi, da poco liberata dopo 14 anni di arresti domiciliari: la Giunta, infatti, si è valsa di una legge che impedirebbe a chiunque fosse stato condannato da un tribunale birmano di presentarsi come candidato alla elezioni presidenziali.

 

Ad ogni modo, la nuova Carta Costituzionale approvata nel 2008 tramite un referendum popolare di dubbia regolarità garantisce alla Giunta la guida del Paese anche in caso di sconfitta elettorale, conferendole, infatti, il diritto di nominare 110 tra i 440 membri della Camera Alta del Parlamento e 56 tra i 224 della Camera Bassa. Inoltre, una distribuzione non uniforme delle urne elettorali, che non sono state aperte in ben 4.000 villaggi, ha significato di fatto l’esclusione dal voto delle minoranze etniche maggiormente colpite dagli abusi del regime. Si stima che circa 2,5 milioni di persone appartenenti ai gruppi etnici degli Shan, Karen e Mon siano stati impossibilitati a raggiungere i seggi. Nonostante le numerose irregolarità, le elezioni di Novembre sono parte centrale della RoadMap to Discipline-Flourishing Democracy, guida alla democratizzazione del Paese scritta dal regime, che prevede “elezioni libere e giuste” e rappresentano un tentativo di legittimazione del proprio dominio a livello internazione, anche mirato ad attirare investimenti stranieri.

 

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SANZIONI: ARMA A DOPPIO TAGLIO – Lo stato birmano è ben consapevole della strategicità di cui gode a livello internazionale. A cavallo tra India e Cina, è uno sbocco preferenziale per Pechino verso l’oceano Indiano. Oltretutto, possiede importanti riserve di gas, petrolio e minerali. A gennaio è stata approvata una legge, la cosiddetta Special Economic Zone Law, finalizzata allo sviluppo di regioni strategiche e alla privatizzazione di alcune imprese statali. Mentre Paesi come Cina, partner economico per eccellenza, e Thailandia stanno approfittando della recente apertura agli investimenti stranieri del Myanmar, i Paesi Occidentali ne sono esclusi a causa delle pesanti sanzioni che hanno imposto al regime al fine di ostacolarne gli abusi. Sanzioni la cui efficacia è discutibile: infatti, sembra che a rimetterne maggiormente sia la popolazione birmana. L’apertura al commercio estero, invece, pare affermarsi come una possibile via alla democratizzazione del paese, tanto che anche Suu Kyi stessa ha accennato ad una possibile sospensione delle sanzioni.

 

Gloria Tononi

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