Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – Ancora oggi la pirateria, in particolare nelle acque di fronte al Corno d’Africa, costituisce una seria minaccia per il commercio internazionale. Le grandi portacontainer, così come le petroliere che seguono la rotta che attraverso Suez e il Mar Rosso collega l’Asia e l’Europa, devono far fronte al rischio costante di un attacco da parte proveniente da piccoli barchini guidati da pirati armati di armi leggere. Le statistiche testimoniano una diminuzione del numero di attacchi, grazie all’adozione di contromisure di una certa efficacia, ma il problema appare ancora lontano da una definitiva soluzione. Soprattutto perché tale soluzione presuppone, secondo la maggior parte degli analisti, una sistemazione nella caotica situazione interna somala.
DATI INCORAGGIANTI – In generale il 2011 non è stato un anno fortunato per i fuorilegge dei mari. Per la prima volta da 5 anni le statistiche dell’International Marittime Bureau mostrano una diminuzione, per quanto modesta, del numero degli attacchi: 439 contro 445. Questa diminuzione del fenomeno è apparsa più consistente nel Mar Cinese, e al largo delle coste del Bangladesh mentre in controtendenza per quanto riguarda il numero di episodi rimangono l’area del Corno d’Africa, l’Indonesia e l’Africa Occidentale. Per quanto riguarda l’attività dei pirati somali – che tutt’ora rappresentano la minaccia più importante al commercio e alla sicurezza dei mari, con il primato di 237 attacchi nell’anno appena trascorso – è stata registrata anche una sostanziale diminuzione del raggio d’azione. Se infatti i pirati africani nel 2010 si spingevano con i loro attacchi fino in prossimità delle coste indiane, nel 2011 si sono mantenuti in zone più vicine alle loro basi operative. Questo cambiamento di strategia è indubbiamente una conseguenza della sostenuta attività di repressione intrapresa dalle forze navali indiane.
LE STRATEGIE DI RISPOSTA – Per quanto non sia ancora il momento di trarre conclusioni definitive, queste statistiche sembrano suggerire che le nuove strategia di difesa adottate dalla comunità internazionale e dalle compagnie di armatori possano bastare a sventare la minaccia. Di fronte al crescere del fenomeno negli ultimi anni, attori privati e istituzionali hanno approntato diverse contromisure da adottare in caso di tentativi di abbordaggio: dalle tecniche di resistenza passiva (ad esempio barricandosi in cabine blindate), all’uso di armi non letali (armi soniche, schiuma immobilizzante, cannoni ad acqua ad alta pressione), all’ingaggio di contractors da imbarcare sulle navi nei tratti di mare più pericolosi. Navi da guerra di diversi paesi sono inoltre coinvolte in imponenti operazioni di pattugliamento antipirateria. Sebbene rivelatesi utili in molti casi, queste contromisure mostrano i loro limiti. Per quanto consistente, la mobilitazione militare internazionale deve far fronte all’estrema estrema vastità del teatro operativo coinvolto dal fenomeno piratesco, che va dalle coste dell’Africa fino a quelle dell’India. È difficile quindi che la protezione delle unità militari sia costante sui grandi numeri. Mantenere navi da guerra operative così lontano da casa per lungo tempo inoltre grava non poco su bilanci statali sempre più risicati in tempi di crisi, ed è quindi per lo meno dubbio che queste missioni possano trovare i necessari finanziamenti per prolungarsi sul lungo periodo.
COSTI DELLA SICUREZZA PRIVATA – I contractors imbarcati sui mercantili rappresentano una buona garanzia, ma i loro servizi sono pagati profumatamente: un team di 4 esperti di sicurezza ha un costo medio di 1400-1600 dollari. Per ridurre questi costi le compagnie di assicurazione e gli armatori hanno avviato progetti per allestire flottiglie di imbarcazioni armate che dovrebbero operare come scorte dei convogli in transito per le acque pericolose. Ma al di là dei dubbi di natura giuridica su questo genere di iniziative e il timore di possibili escalation di violenza da parte dei criminali, si tratta sempre di contromisure utili a livello singolo, ma poco influenti rispetto ai grandi numeri dei flussi commerciali che ogni giorno interessano Suez, lo stretto di Bab-el Mandeb e il Golfo di Aden (il 75 % delle navi attraversano queste acque priva protezione armata).
DALLA TORTUGA AL PUNTLAND – Dagli albori della navigazione imbarcazioni pirata hanno costantemente infestato i mari internazionali, in maniera più intensa in determinati periodi storici ed aree geografiche. La pirateria conobbe il suo “periodo d’oro” tra il 1600 e il 1700 nelle calme e calde acque caraibiche. In questi anni e in questi luoghi chi voleva darsi alla vita del fuorilegge dei mari poteva contare sulle due condizioni indispensabili per svolgere la lucrosa attività: importanti rotte commerciali e una terraferma (le selvagge isole caraibiche), libera dal controllo delle autorità, su cui rifugiarsi e porre le proprie basi. Queste due indispensabili condizioni si sono verificate in anni recenti nell’area del Corno d’Africa nelle cui acque incrociano navi container piene di merci in viaggio tra l’Asia e l’Europa e tanker che trasportano l’indispensabile petrolio mediorientale verso l’occidente e l’oriente industrializzato. La mancanza di un’autorità stabile ed effettiva entro i confini della Somalia fornisce l’indispensabile impunità ai pirati per stabilire le proprie basi operative e logistiche, ubicate in particolare nella regione nord orientale autonoma del Puntland. L’instabilità politica, che da vent’anni ha sprofondato il paese in una continua guerra civile e la conseguente povertà diffusa forniscono inoltre manodopera in quantità alle organizzazioni che si dedicano a questa attività criminale. La Somalia è diventata quindi tristemente famosa come santuario della moderna pirateria, superando la fama di altri tratti di mare conosciuti ai naviganti di lungo corso per la loro pericolosità come lo Stretto di Malacca, le coste indonesiane e dell’Africa Occidentale.
PERICOLO IN MARE E DISPERAZIONE SULLA TERRA FERMA – Ancora oggi la navigazione nelle acque del corno d’Africa risulta pericolosa. Bisogna ricordare che per quanto le iniziative di repressione crescano in intensità e durezza non rappresentano un deterrente efficace a fronte degli alti guadagni che questa attività criminale può garantire. Per fare un esempio, il riscatto che secondo fonti giornalistiche sarebbe stato consegnato per la liberazione del cargo Rosalia D’amato ammonterebbe a circa 12 milioni di dollari. Una cifra che spingerebbe alla delinquenza molte persone senza scrupoli in tutto il mondo, e che è ancora più convincente per chi, come gli abitanti della Somalia, vive da trent’anni nella povertà più nera ed è abituato dal costante stato di guerra ad avere a che fare con la violenza e le armi. Una soluzione al problema della sicurezza del commercio marittimo passa evidentemente per una soluzione al problema del caos politico e sociale che continua a regnare in Somalia. Ma un’iniziativa di questo tipo non appare all’orizzonte della politica internazionale. La pirateria è il prezzo che la comunità internazionale continua a pagare per la sua incompetenza e indifferenza rispetto alla tragedia di questo estremo angolo d’Africa.