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Dagli Appennini… alle Ande (II)

Continuiamo la nostra chiacchierata con il Professor Michel Levi dell’Università Andina di Quito. Affrontiamo ora temi di attualità come la visione dei Paesi sudamericani della crisi europea e lo stato (o meglio, lo stallo) dei negoziati commerciali tra la CAN e l’UE. Con un’occhiata finale sul caso Assange, che ha visto l’Ecuador di Rafael Correa spendersi in prima persona per concedere asilo al fondatore di Wikileaks

 

Seconda parte

 

Parliamo di Venezuela. Nel 2006 il Paese governato da Hugo Chávez ha lasciato la CAN per fare richiesta di ammissione nel MERCOSUR (vi è entrato ufficialmente nel mese di luglio 2012). Chi sono i vincitori e vinti in questa dinamica? Che cosa ha determinato questa decisione: le divergenze politiche con la Colombia o ragioni più profonde di tipo economico?

 

Il ritiro del Venezuela dalla CAN è una decisione rispettabile che un Paese ha assunto in funzione dei propri interessi economici e geopolitici. Dal mio punto di vista è una delle poche decisioni politiche sostanziali che sono state prese in seno alla CAN negli ultimi dieci anni, ma purtroppo lo scopo non è stato quello di rafforzare il processo di integrazione, bensì di indebolirlo. Credo che la motivazione risieda negli interessi particolari del Venezuela, in particolare quelli del suo governo attuale, che potenzialmente avrebbe potuto mantenere nell’avanzare del processo di integrazione. In realtà il governo venezuelano è stato limitato nella sua capacità di avere un ruolo più importante nel processo andino, così dopo aver misurato i propri interessi e gli obiettivi geopolitici, ha deciso di rafforzare la struttura di propria creazione (l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America, ALBA) e di presentare richiesta di adesione al Mercosur, nel quale potrebbe diventare un player importante dinanzi a paesi di grandi dimensioni economiche come il Brasile e l’Argentina. Vale a dire che il Venezuela ha strategicamente suddiviso le scelte politiche ed economiche per scommettere su un processo regionale come l’ALBA e un processo di integrazione regionale nel caso del Mercosur. Da questo punto di vista non ci sono né vincitori né vinti, in quanto non è una competizione, ma semplicemente un insieme di interessi di un paese in funzione della regione a cui appartiene, cioè il Sudamerica. Nello stesso contesto, nemmeno le relazioni a volte complicate con la vicina Colombia sembrano essere state una “miccia” per prendere una decisione su base regionale, ad eccezione delle differenze originatesi nel quadro della CAN dopo l’autorizzazione da parte del Consiglio presidenziale andino di negoziare trattati di libero scambio con gli Stati Uniti d’America e l’Unione europea su base individuale o di gruppo, che sono stati la ragione ufficiale per forzare l’uscita del Venezuela dal gruppo andino.

 

Spostiamoci ora dall’altra parte dell’Atlantico. Qual è il l’opinione di questi paesi sulla crisi dell’Unione europea? Qual è lo stato dei negoziati tra l’UE e questi Stati?

 

Si tratta di due questioni molto diverse quindi prima di tutto mi riferirò alla crisi e successivamente ai negoziati commerciali con l’Unione europea. In un continente come il nostro, che ha vissuto molte crisi negli ultimi decenni, guardare il contesto della crisi in Europa, ci porta a riflettere su alcune questioni, come ad esempio la necessità e l’efficacia della vigilanza sul settore finanziario, o il contesto della creazione di un unico sistema monetario tra i diversi paesi, con economie asimmetriche; oppure anche cose più concettuali, nel campo di applicazione di ciò che significa “crisi” per i cittadini europei, a fronte di ciò che significa per i cittadini sudamericani o africani. Mentre nel Sudamerica degli anni Ottanta e Novanta la tendenza è stata la deregolamentazione del settore finanziario per dare una maggiore apertura e possibilità di coinvolgere il settore privato nello sviluppo economico dei paesi, nei primi decenni del 2000 si è fatto ritorno a schemi di controllo, più o meno limitati in paesi come la Colombia e il Perù, e più o meno forti in paesi come Bolivia, Ecuador e Venezuela. Il cambiamento di visione e di obiettivi in ​​materia di regolamentazione degli anni Duemila è radicato nelle terribili crisi economiche e finanziarie che nella nostra regione hanno causato la deregolamentazione dei mercati finanziari, che ha portato al fallimento di paesi, come lo stesso caso dell’Ecuador che dovuto adottare un meccanismo di “dollarizzazione” per uscire dal problema o l’Argentina, dove i cittadini hanno affrontato il congelamento dei conti bancari e dei propri risparmi, con una terribile perdita di valore della moneta nazionale. Guardare la crisi europea in questo contesto, con nazionalizzazioni bancarie, Stati in bancarotta come la Grecia o l’Islanda, crollo finanziario in Spagna, Portogallo e Italia … ci dà un senso di dejà vu, come se le lezioni del passato in paesi piccoli non si potessero utilizzare nei paesi più sviluppati. Inoltre, uno degli interessi principali degli Stati sudamericani con la creazione dell’UNASUR, è stata intraprendere i passi per consentire a medio termine di avere una moneta unica circolante nella regione. Da questo punto di vista, la crisi europea ci ha dato le linee guida per comprendere la complessità di mantenimento di una politica monetaria comune, senza integrarla con altre politiche comunitarie come la politica fiscale o economica per disciplinare le asimmetrie tra i diversi Stati. Infine, è chiaro che il concetto di crisi dell’Unione Europea è completamente diverso da quello trovato in altre regioni del mondo. Infatti, in società con una vasta classe media che hanno un reddito relativamente elevato rispetto a quello delle stesse classi medie in altri paesi al di fuori dell’UE, “crisi” probabilmente significa ridurre la quantità di risparmio mensile, o forse non trascorrere le vacanze all’estero, spendere meno in beni come abbigliamento, pasti al ristorante, gite o altre spese simili. La crisi per le classi medie sudamericane comporta invece minimizzare i costi per cibo, casa, la necessità di cercare alternative lavorative complementari per guadagnare il reddito necessario, oppure pagare di più per i servizi pubblici e privati ​ … e di vacanze, manco a parlarne! Questi parametri ci danno un assaggio di quello che vuol dire “crisi” sotto diversi punti di vista e, soprattutto, come il vostro peso è diverso in Europa, in Sud America o in Africa. Per quanto riguarda i negoziati commerciali con l’Unione Europea, vediamo che salvo quelli su base bilaterale, come nel caso del Messico e Cile, e al momento attuale in Colombia e Perù, che hanno avuto come obiettivo il rafforzamento dei processi di integrazione regionale esistenti nella regione, (CAN e MERCOSUR) non hanno avuto successo dal mio punto di vista perché i processi sudamericani non sono sufficientemente consolidati come blocco in grado di condurre negoziati con una sola voce. La diversità degli interessi in seno alla CAN, per esempio, ha causato una rottura netta tra i suoi paesi membri che si trovano ora in due chiare tendenze: una che cerca totale apertura al commercio internazionale attraverso la firma di accordi di libero scambio con la maggior parte di un certo numero di paesi, e un altro completamente chiuso a qualsiasi trattativa, cosa che colpisce non solo la loro sovranità nazionale, ma a medio termine potrebbe essere un ulteriore ostacolo a causa delle asimmetrie a livello di sviluppo economico. Nel MERCOSUR invece, l’interesse di entrare nel mercato europeo senza restrizioni, in particolare con i prodotti agricoli, così come l’approccio finalizzato a che la UE smantelli le sovvenzioni che mantiene alla sua agricoltura attraverso la Politica Agricola Comune (PAC), sono stati uno dei “sassolini nella scarpa” della negoziazione, che rimane stagnante da diversi anni. In breve, credo che in questo decennio debba essere chiaramente definita la posizione dei paesi sudamericani di fronte ai negoziati commerciali con l’UE, e allo stesso modo anche quest’ultima dovrebbe ripensare le sue condizioni negoziali, se vuole mantenere un contatto diretto con i mercati dell’altro lato dell’Atlantico. In ogni caso è chiaro che in questo disaccordo il vincitore è la Cina, che mettendo in pratica il famoso detto “non importa di che colore è il gatto, l’importante è che catturi il topo”, continua a fare affari con chiunque.

 

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L’ultima domanda si allontana un po’dal tema di questa intervista, ma si riflette nell’attualità diplomatica. Dato che lei è ecuadoregno, come vede la questione di Julian Assange e Wikileaks? Si riferisce solamente alla retorica contro gli Stati Uniti Governi latinoamericani di sinistra o ci sono ragioni più profonde?

 

Il caso Assange è singolare. Dal mio punto di vista ha distolto l’attenzione dall’aspetto fondamentale all’accessorio… cioè, il problema principale di Wikileaks è il fatto di aver portato alla luce le comunicazioni segrete della diplomazia degli Stati Uniti e di averle distribuite tra tutti gli attori internazionali che sono nominati, in una forma o nell’altra, in tali documenti. L’attuale asilo diplomatico che l’Ecuador ha concesso ad Assange cerca di proteggerlo dalla possibile estradizione che il governo svedese potrebbe attivare, su richiesta del governo degli Stati Uniti d’America. Tuttavia la richiesta di comparire davanti a un tribunale in Svezia, si riferisce ad un presunto tentativo di violenza sessuale, cosa che non ha alcun rapporto diretto con la questione Wikileaks ed è stata considerata come uno stratagemma preparato per incriminarlo ed in un secondo momento estradarlo verso gli Stati Uniti. Il mio punto di vista personale è che questo caso consente una relazione “costi-benefici” sia per Assange che per il governo ecuadoregno, nella misura in cui dà visibilità a quanto di più vario si possa immaginare, come ad esempio: Wikileaks, la persecuzione, la libertà di stampa, un paese amico impegnato per la libertà, l’imperialismo, asilo presso le ambasciate, l’estradizione, la pena di morte… Sicuramente entrambe le parti possono trarre grandi vantaggi con la visibilità e la diversità degli argomenti che porta questo caso. Penso che la retorica che si pone nel caso di specie, è comunque un modo che ci ha permesso di rivelare l’esistenza di una legislazione britannica arbitraria e contraria al diritto internazionale, che è stato anche enunciato delicatezza poco diplomazia britannica, un fatto che ha portato gli stessi diplomatici britannici a protestare contro il proprio governo per il terribile “errore” che il suo uso ha portato alla comunità internazionale. Al di là di questo, penso che alla fine Assange dovrà andare in Svezia per essere giudicato nel processo per cui è imputato, ma questa volta sotto il controllo e la protezione di un paese amico che gli ha concesso diritto d’asilo, l’Ecuador. Ora Assange non è più solo, ma ha un paese al quale si può rivolgere, se i suoi diritti sono stati violati, e lo Stato, a sua volta, ha la capacità di attivare i meccanismi delle organizzazioni internazionali in tutto il mondo.

 

Davide Tentori

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Davide Tentori
Davide Tentori

Sono nato a Varese nel 1984 e sono Dottore di Ricerca in Istituzioni e Politiche presso l’Università “Cattolica” di Milano con una tesi sullo sviluppo economico dell’Argentina dopo la crisi del 2001. Il Sudamerica rimane il mio primo amore, ma ragioni professionali mi hanno portato ad occuparmi di altre faccende: ho lavorato a Roma presso l’Ambasciata Britannica in qualità di Esperto di Politiche Commerciali ed ora sono Ricercatore presso l’Osservatorio Geoconomia di ISPI. In precedenza ho lavorato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri dove mi sono occupato di G7 e G20, e a Londra come Research Associate presso il dipartimento di Economia Internazionale a Chatham House – The Royal Institute of International Affairs. Sono il Presidente del Caffè Geopolitico e coordinatore del Desk Europa

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