AstroCaffè – Mezzo secolo fa un gruppo di uomini coraggiosi si lanciava in un’avventura che avrebbe cambiato per sempre il modo in cui guardiamo lo spazio e noi stessi. Erano gli astronauti del progetto Apollo, gli uomini destinati a conquistare la Luna. Nei giorni scorsi ci ha fatto visita uno di loro, Walter Cunningham, ospite dell’associazione ADAA
UNA NAVICELLA DA TESTARE
Sono passati quasi 50 anni dalla mattina dell’11 ottobre 1968, quando il Saturn 1B, progenitore del Saturn V che porterà l’uomo sulla Luna l’anno successivo, si alzò con il rombo di un tuono da Cape Canaveral, in Florida. A bordo c’erano il comandante Walter Schirra, il pilota del modulo di comando Donn Eisele e il pilota del modulo lunare Walter Cunningham. Obiettivo: testare in orbita terrestre tutti i sistemi della navicella Apollo: propulsione, navigazione, randezvous, attracco (simulato perché il modulo lunare non era presente, in quanto non ancora pronto) nella prima missione con equipaggio del programma lunare. Se i test fossero falliti, probabilmente l’America avrebbe dovuto dire addio alla promessa fatta dal suo presidente J.F. Kennedy nel 1961: un americano sulla Luna entro la fine del decennio.
Fig. 1 – I tre astronauti dell’Apollo 7: da sinistra, Donn Eisele, Walter Schirra, Walter Cunningham
Walter Cunningham, unico astronauta ancora in vita di quella missione che ha realmente dato l’avvio al programma Apollo dopo il disastro dell’Apollo 1 (il rogo della navicella durante una sessione di test in cui morirono gli astronauti Grissom, White e Chaffee) ha visitato nei giorni scorsi l’Italia, ospite a Milano dell’associazione ADAA (Associazione per la Divulgazione Astronomica e Astronautica). “Fu una missione di grande successo – ha ricordato Cunningham – portammo a termine tutti i test previsti, una grandissima mole di lavoro”. Gli imprevisti ci furono però e non di natura tecnica: “Il nostro comandante Schirra – ricorda Cunningham – era un tipo particolare… forse dipendeva dal fatto che suo padre e suo nonno fossero stati ammiragli, certo è che lui non teneva in alcun conto l’opinione degli altri. Pochi giorni dopo il decollo si ammalò di raffreddore (che in condizioni di microgravità provoca una dolorosa congestione delle vie respiratorie, ndr.), cosa che fece rischiare il rientro anticipato della missione. Lui però non ammise mai che fosse stata colpa sua, che avesse taciuto le sue condizioni prima della partenza, e invece disse sempre che ci eravamo ammalati tutti e tre. Noi invece (Cunningham ed Eisele, ndr.) stavamo benissimo. D’altra parte lui era il comandante quindi faceva testo ciò che diceva lui!”. I giorni passavano e si avvicinava il momento del rientro, ma le condizioni di Schirra non miglioravano. “A quel punto – ricorda Cunningham – il comandante Schirra comunicò al controllo missione di Houston che saremmo tutti rientrati senza indossare i caschi (altrimenti sarebbe stato impossibile soffiarsi il naso e compensare l’aumento della pressione esterna, ndr.). Loro non erano d’accordo ma Wally (Schirra, ndr.) non volle sentire ragioni. Atterrammo senza indossare i caschi e da allora non lo fece più nessun altro astronauta”.
IL MOMENTO DECISIVO
Ma facciamo un passo indietro… come è venuto in mente al giovane Cunningham, ex Marine, fresco di laurea e master in Fisica, di fare un salto più in là, verso lo spazio? “Era il 1961. Stavo andando al lavoro in macchina, alla Rand Corporation – racconta Cunningham – quando sentii alla radio il conto alla rovescia del razzo Redstone con a bordo l’astronauta Alan Shepard. Meno 10-9-8 secondi… dovetti accostare, mi mancava il fiato… meno 4-3-2-1… decollo! Rimasi frastornato…il razzo saliva, saliva, saliva, portando il primo americano nello spazio… e poi sentii una voce gridare: Ce l’ha fatta quel gran figlio di p…! Mi girai di scatto, cercando chi avesse urlato, ma non c’era nessuno. Quella persona ero io. Due anni dopo condividevo l’ufficio con Shepard alla NASA”.
Fig. 2 – Il volantino dell’evento
Erano anni in cui esplorare voleva dire rischiare. “Il successo della missione e la sopravvivenza degli astronauti erano in dubbio fino all’ammaraggio”, ricorda Cunningham. “Ciò nonostante il successo dell’Apollo 7 fu del 101%, come affermato dalla stessa NASA. Ancora oggi l’Apollo 7 è il primo volo di collaudo più lungo (quasi 11 giorni) e di maggior successo di tutta la storia aerospaziale. Noi fummo anche i primi a fare una diretta TV dallo spazio che ci valse l’Emmy Award…peccato che la NASA non ci diede il permesso di andare a Hollywood a ritirarlo. Ci arrivò poi in una cassa”.
A proposito di esplorazione e rischi, a chi gli ha chiesto se abbia mai avuto paura, Cunningham ha risposto così: “Certo, ho avuto paura, paura di fallire, di essere giudicato inadeguato dai miei colleghi. Il mio pensiero era: se questa missione deve fallire, non deve essere per colpa mia!”.
ESPLORAZIONE SENZA RISCHI?
Cunningham oggi è un imprenditore, ma ha ancora molto da dire quando si parla di spazio e soprattutto della politica attuale dell’Agenzia spaziale statunitense. “Il nostro programma spaziale di oggi riflette la volontà di non rischiare. La NASA è più burocratica e meno incline al rischio. Lo spirito americano viene penalizzato dal desiderio di avere una società priva di rischi, manca lo spirito di avventura. Esplorazione non vuol dire eliminazione del rischio ma gestione del rischio. I politici si concentrano principalmente sulla propria sopravvivenza, non sul trovare la gente con la ‘stoffa giusta’. Gli astronauti devono essere disposti a morire, se no non c’è esplorazione.
Quando Magellano partì per il suo viaggio intorno alla Terra aveva con sé cinque navi. Solo una riuscì a circumnavigare il globo portando con sé al ritorno appena 18 dei marinai originari (lo stesso Magellano non fece ritorno, era morto l’anno prima nelle Filippine). Così il programma Apollo ha radunato migliaia di persone accomunate da una grandissima dedizione e motivazione. Gente disposta ad accettare qualsiasi rischio per raggiungere l’obiettivo. Se non sei disposto a rischiare il fallimento non meriti di vincere”.
Claudia Filippazz0
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Il lavoro dell’astronauta, in sé, non è mai stato particolarmente remunerativo, almeno in rapporto ai rischi per la salute e per la vita stessa. “Al termine della mia carriera da astronauta – conclude Cunningham – guadagnavo 25mila dollari all’anno. Negli 11 giorni della missione Apollo 7 (e ai tempi non avevo neanche l’assicurazione perché ero entrato come civile e la NASA non voleva accollarsi i costi molto alti per assicurarmi) ne ho guadagnati 600 … se mi avessero pagato a chilometraggio sarei diventato milionario!”
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