Le elezioni presidenziali brasiliane si avvicinano e Lula, nonostante i guai sul fronte giudiziario, continua a dominare nei sondaggi. Il caso Lula, tuttavia, è tutt’altro che una questione meramente interna
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L’operazione Lava Jato, la gigantesca inchiesta che ha scoperchiato il vasto sistema di corruzione che gravitava intorno alla compagna petrolifera brasiliana Petrobas, portando alla scoperta di quello che è stato definito come il caso di corruzione più grave della storia brasiliana, ha raggiunto il picco delle proprie conseguenze recentemente: Gerban Neto, il giudice relatore del Tribunale d’Appello di Porto Alegre, ha infatti confermato la condanna inflitta all’ex presidente Inacio “Lula” Da Silva il 12 luglio scorso (primo grado), portando anche ad un aumento della pena inizialmente calcolata in 9 anni e 6 mesi.
Le accuse, corruzione e riciclaggio, comportano una pena attuale di 12 anni e un mese di carcere, in conseguenza anche dello sconto riservato ai condannati con età superiore ai 70 anni. Al fine di evitare l’eventualità della detenzione, gli avvocati dell’ex presidente hanno presentato una mozione alla Corte Suprema di Giustizia Brasiliana (TSJ), che però ha espresso parere contrario in data 31 gennaio. Il giudice Humberto Martins ha infatti negato la richiesta affermando che tale concessione possa essere accordata solamente nel momento in cui sussiste una “concreta minaccia di incarcerazione imminente”. L’arresto dell’ex presidente dovrebbe avvenire nel momento in cui la Corte avrà notificato i dettagli della decisione alla difesa, processo che di solito richiede un mese. Sebbene la maggioranza dell’opinione pubblica brasiliana sia dalla parte di Lula, sembra siano rimaste ormai poche carte in mano alla difesa di un personaggio tanto importante per la storia nazionale quanto influente all’interno degli equilibri regionali, i quali sono stati pesantemente influenzati dalle vicende giudiziarie partite dal Brasile.
Figura 1 – Lula durante un comizio del PT.
IL PIANO DELLA DIFESA
Il team di avvocati incaricato di portare avanti la difesa dell’ex presidente non ha dunque ottenuto il successo che sperava, a cominciare dall’annullamento del sequestro del passaporto disposto dal giudice federale Ricardo Leite. Il procedimento per il recuperò è stato avviato il 28 gennaio ed è fondato sulla convinzione che Lula “non può soffrire nessuna restrizione alla propria libertà”.
La questione del passaporto emerse nel momento in cui Lula aveva pianificato di recarsi in Etiopia per un incontro con l’Unione Africana dedicato all’eradicazione della fame nel continente. Il giudice federale ha però impedito all’uomo politico di uscire dal Brasile. La decisione ha visto ovviamente il parere contrario degli avvocati di Lula, che tramite una nota diretta al Tribunale Regionale Federale della Prima Regione redatta dal difensore Cristiano Zanin esprimono il proprio dissenso nei confronti del provvedimento. L’illegittimità della decisione deriverebbe dal fatto come non ci sia ancora una condanna definitiva contro l’imputato nell’ambito del Tribunale Regionale Federale della Quarta Regione, con sede a Porto Alegre, il quale ha stabilito l’aumento di pena a 12 anni di reclusione. Le opzioni della difesa erano limitate: di prassi, gli avvocati hanno a disposizione 15 giorni dal momento della sentenza per poter presentare un ricorso speciale che tenga conto del merito dell’azione e per un ulteriore ricorso straordinario al Tribunale Federale Supremo, che può annullare la decisione ed esprime un parere definitivo. L’obiettivo in entrambi i casi è evitare l’applicazione della Ley de Ficha Limpia, che impedisce ai condannati in secondo grado di candidarsi. Dal momento che il tribunale si sia espresso contro il ricorso, le ipotesi prevedono l’incarcerazione o la dichiarata ineleggibilità per le elezioni che si terranno ad ottobre – la qual cosa, però, non impedisce al leader del PT di presentare la propria candidatura ufficiale entro il 15 agosto -.
L’importanza politica, prima ancora che giudiziaria, del caso Lula è evidente. Ad ammetterlo è lo stesso presidente de facto del Brasile, Michel Temer, il quale ha dichiarato il lunedì 29 gennaio che l’ex presidente “non è morto politicamente”. Inoltre, Temer ha espresso il suo augurio che Lula possa partecipare alle elezioni di ottobre “perché ciò pacificherebbe il Paese”. Il timore di tensioni, espresso dal presidente in carica, è infatti estremamente concreto. “Negli ultimi tempi il Brasile vive una tensione permanente e questo non è positivo per il Paese”, come lo stesso Temer afferma.
LE MOSSE DEL PT
La formazione politica brasiliana – Partido dos Trabahadores – che vedeva in Lula la scommessa sicura per le elezioni di ottobre dovrà ripensare drasticamente la propria strategia elettorale, soprattutto in caso di effettivo arresto dell’ex presidente.
All’interno della galassia della sinistra brasiliana, c’è chi sostiene il mantenimento dell’attuale linea anche al di fuori del PT: il presidente del Partido da Causa Operária (PCO) Rui Costa Pimenta ha dichiarato che il PT debba mantenere la candidatura anche di fronte all’ipotesi di incarcerazione, dal momento che “nessuno può prevedere la portata della reazione contro la condanna di Lula”. Il rischio, infatti, è la “marginalità politica” che seguirebbe la nomina di un altro candidato.
Tale strategia sembra effettivamente quella che il PT sia intenzionato a perseguire, con l’ufficializzazione della candidatura di Lula all’unanimità in pieno contrasto con la condanna, candidatura prontamente accettata. L’idea di base, dunque, sembrerebbe quella di procedere contro il parere dei giudici e fare quadrato attorno all’ex presidente, ulteriore vittima di un golpe giudiziario come ribadito dall’ex presidente Dilma Rousseff.
Il partito, dunque, non sembra intenzionato a differenziare il rischio e a provvedere alla nomina di un altro candidato, magari con minore visibilità ma maggiore solidità, per concorrere alle elezioni. È evidente che tale strategia presenti dei limiti strutturali che il movimento progressista latinoamericano ha mostrato in più occasioni, ossia l’identificazione irriducibile fra l’ideologia e il leader che ne incarna l’espressione. Ciò rende la formazione politica particolarmente vulnerabile di fronte alla fragilità delle singole candidature e riflesse, in ultima istanza, una mancanza di visione di lungo termine che il PT potrebbe pagare a caro prezzo.
Figura 2 – Michel Temer, attuale presidente de facto del Brasile.
VOCI DALL’EUROPA
Anche in Europa non sono mancate le dichiarazioni in sostegno di Inacio “Lula” da Silva. Vari infatti sono stati i partiti politici europei che hanno voluto esprimere la propria vicinanza all’ex presidente brasiliano.
Fra questi, vi è in Germania il partito di sinistra Die Linke, i cui presidenti del gruppo parlamentare Sahra Wagenknecht e Dietmar Bartsch hanno definito la decisione del tribunale come uno “scandalo giuridico e politico”. I due presidenti hanno richiesto al Governo tedesco di rifiutare pubblicamente la sentenza, sostenendo che l’inchiesta presenti gravi irregolarità. Persino il portavoce socialdemocratico nel Bundestag Niels Annen, sottolineando la necessità di lottare contro la corruzione, ha affermato che “una sentenza giuridica deve reggersi su prove solide e non su simpatie o antipatie politiche”, cosa che non sembra del tutto univoca in questo caso.
Nel mentre, la Sinistra Verde Nordica nel Parlamento Europeo ha definito tramite comunicato stampa la decisione del tribunale come un golpe realizzato “in un clima ostile nel quale la restaurazione del conservatorismo continua e nel quale i progressi sociali dei Governi precedenti sono distrutti”, affermando anch’essi la natura politica del verdetto contro Lula.
LE REAZIONI ALL’INTERNO DEL CONTINENTE
La rilevanza politica del caso Lula ha fatto sì che si susseguissero numerose dichiarazioni a tal proposito all’interno dell’America Latina. Fra le più rilevanti vi è sicuramente quella del Frente Amplio uruguaiano, che in data 27 gennaio ha espresso una forte critica nei confronti della sentenza originale e della sua successiva estensione a 12 anni di prigione, criticando anche l’imparzialità dei giudici. La coalizione di sinistra ritiene infatti che la decisione abbia “violato le garanzie del giusto processo” e inserisce la condanna all’interno dell’“offensiva” portata avanti dalle élite economiche e politiche che cercherebbero di minare la solidità del Partido dos Trabalhadores dell’ex presidente.
Anche in Perù sono state espresse parole di denuncia nei confronti della decisione della Corte: il 25 gennaio, l’analista peruviano Alberto Adrianzén ha definito la sentenza come “la continuazione del golpe che destituì Dilma Rousseff”. L’opinione di Adrianzén non è isolata all’interno della nazione sudamericana: l’ex senatore e l’analista peruviano Gustavo Espinoza parla di “offensiva contro il processo emancipatore latinoamericano”. Nella sua dichiarazione a Prensa Latina, rilasciata anch’essa il 25 gennaio, Espinoza insiste sulla presunta assenza di prove e ricollega la vicenda di Lula a quanto sia successo o stia succedendo in Venezuela con Maduro, in Ecuador con Correa, Morales in Bolivia e Ortega in Nicaragua.
Persino l’ex premier peruviano Salomón Lerner ha manifestato nello stesso giorno la propria solidarietà nei confronti dell’ex presidente brasiliano, definendo la sua vicenda giudiziaria come una persecuzione. L’interesse del Perù per uno scandalo di tangenti brasiliano sembra essere immotivato o, per lo meno, non dettato da secondi fini. In realtà, stando a quanto afferma il Washington Post, i due Paesi sono uniti a doppio filo all’interno di una vicenda che potrebbe avere forti ripercussioni per Lima: lo scandalo Odebrecht, legato alla società di costruzioni brasiliana colpevole di innumerevoli operazioni finanziarie illecite e di corruzione – anche a livelli internazionali -, ha portato alla paralisi il Perù, che ha sospeso alcuni progetti edilizi di dimensioni e importanza capitali. Fra il 2005 ed il 2014, sempre secondo il Washington Post, Odebrecht avrebbe ammesso di aver pagato 29 milioni di dollari in tangenti ad ufficiali peruviani, in cambio di contratti per 12,5 miliardi di dollari.
La vicenda Odebrecht – a cui il caso Petrobas è collegato – coinvolge attualmente 14 Paesi, arrivando a toccare persino il presidente venezuelano Nicolás Maduro. Il Paese che sta subendo il devastante impatto dell’inchiesta più di qualsiasi altro ad eccezione del Brasile è però proprio il Perù, il quale è divenuto per gli esperti un caso esemplare delle conseguenze nefaste della corruzione sull’economia e sullo sviluppo di una nazione. Gli economisti stimano che i progetti fermati e i contratti congelati abbiano inciso per l’equivalente dell’1.5% del PIL lordo peruviano. Tuttavia, secondo Mauricio Mulder, membro del comitato parlamentare che indaga sul caso Odebrecht, “probabilmente finora abbiamo visto solamente un quinto dell’impatto”. Inoltre, sebbene l’economia peruviana continuerà a crescere, non dovrebbe raggiungere il tasso del 5% necessario secondo gli economisti per ridurre la povertà e circa 150 000 posti di lavoro sarebbero stati persi negli ultimi 12 mesi.
Tre ex presidenti peruviani sono per ora coinvolti nell’inchiesta, con l’accusa di aver ricevuto finanziamenti illeciti da Odebrecht. Persino l’attuale presidente Pedro Pablo Kuczynski è scampato ad un tentativo di impeachment a dicembre e potrebbe dover affrontarne un altro a causa di nuove rivelazioni che riguarderebbero la sua direzione della Westfield Capital negli anni 90, quando la compagnia ricevette 782.000 dollari dalla società brasiliana.
Riccardo Antonucci
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””] Un chicco in più
Il centro studi Inter-American Dialogue ha prodotto un’analisi delle conseguenze interne del caso giudiziario di Lula. I risultati della sua analisi sono consultabili qui. [/box]
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