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La campagna ucraina a Kursk: valutazione e prospettive

Caffè lungo La sconfitta ucraina nel Kursk è stata solo velocizzata dalle scelte dell’Amministrazione Trump. Con la caduta di Sudzha, Kiev perde un importante assetto negoziale, alla luce del disinteresse di Washington che obbliga a trattare da una posizione sempre più debole. Esito di una campagna troppo prolungata, che ha logorato forze insostituibili.

LA CRISI DI KIEV OLTRE CONFINE

Negli ultimi giorni la situazione delle forze ucraine da sette mesi nell’oblast russo di Kursk, già molto complicata, è collassata in modo probabilmente irreparabile. Un aggravamento che va a compromettere lo scopo dichiarato del Presidente Zelensky, il reciproco scambio di territori occupati. La decisione dell’Amministrazione Trump di interrompere il supporto di intelligence alle forze ucraine – più che l’interruzione delle forniture militari – sembra avere avuto una conseguenza immediata sulla sicurezza del fronte per Kiev. Lo stop è stato confermato mercoledì 5 marzo dal direttore della CIA John Ratcliff, e tra il 7 e l’8 è iniziata una controffensiva russa per spezzare in due il saliente ucraino, durante la quale tra le altre cose non hanno potuto essere utilizzati quei sistemi missilistici a lungo raggio per i quali è fondamentale il supporto satellitare statunitense. Tra il 12 e il 13 marzo i “milblogger” russi hanno annunciato la riconquista della città di Sudzha – principale centro urbano conquistato dagli ucraini nella regione – e Kiev ha confermato, prima solo implicitamente poi in modo più formale, che è in corso una inevitabile ritirata verso il confine internazionale. Di fatto, la campagna nel Kursk può dirsi conclusa con la vittoria russa, pure ottenuta a carissimo prezzo.

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Fig. 1 – Un veicolo militare ucraino in movimento nei pressi di Sudzha, settembre 2024. Si nota sul parabrezza il triangolo bianco che identifica i reparti impegnati nell’operazione

OFFENSIVA DI SUCCESSO, MA A QUALE SCOPO?

Indicare l’Amministrazione statunitense come responsabile della vittoria russa nella regione non è sbagliato, ma parziale. Al 20 gennaio, giorno dell’insediamento di Donald Trump, gli ucraini risultavano ritirati da metà del territorio conquistato. In ottobre erano già arrivati i primi contingenti nordcoreani, che al prezzo di pesantissime perdite hanno alleviato la pressione sulle forze di Mosca. Alla luce di una ritirata per salvare unità che altrimenti sarebbero state annientate, è lecito domandarsi cosa Kiev volesse ottenere e se, a conti fatti, ne sia valsa la pena.
Lo Stato Maggiore ucraino ha sempre mantenuto un forte riserbo sulle operazioni oltre confine, e almeno pubblicamente non è stato indicato un preciso target militare o di raggiungimento territoriale. Il 10 agosto era stata occupata Sudzha. Nell’ultima decade di agosto l’offensiva ucraina ha raggiunto il culmine nel territorio tra il confine e il fiume Sejm, che gli ucraini accusano essere stato contaminato con scarichi industriali per ostacolare i loro movimenti. L’invasione è stata una profonda umiliazione per le forze di difesa russe, colte di sorpresa nei primi giorni con rese di massa che hanno consentito all’Ucraina di avere prigionieri da scambiare con la mediazione di Paesi terzi. D’altro canto, le forze ucraine non sono mai arrivate a più di ottanta chilometri dal capoluogo, una cinquantina dalla centrale nucleare di Kursk, che nei primi giorni si era ipotizzato potesse essere occupata.

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Fig. 2 – Una postazione ucraina nella regione di Sumy, retrovia dell’offensiva nel Kursk. Con la ritirata dai territori occupati, l’oblast viene a trovarsi sulla linea del fronte dell’avanzata russa

IL RISCHIO DI UN SACRIFICIO IMPOSSIBILE DA MANTENERE

L’impegno militare ucraino nel Kursk è stato notevole, coinvolgendo unità d’élite come la 80esima Brigata d’Assalto Aereo “Galizia”, responsabile di numerosi successi sia offensivi che difensivi – da ultimo, l’aver sventato il tentativo ormai celebre di un’incursione russa attraverso le condutture di un gasdotto a inizio marzo. Nel complesso, si stima che almeno ventimila soldati abbiano partecipato all’offensiva, gli effettivi di cinque brigate e i successivi rinforzi. Mosca ha risposto impiegando, con ritardo e approssimazioni che hanno causato ulteriori gravi perdite, forze d’élite aviotrasportate, fanteria di Marina, unità inviate dall’alleato ceceno Ramzan Kadyrov e rinforzi nordcoreani. Indicare una cifra anche approssimativa delle perdite è invece impossibile, perché entrambi i fronti sostengono di avere causato al nemico decine di migliaia di morti, mentre minimizzano – o non indicano affatto – i danni subiti. Certo è che intere comunità dell’area interessata hanno dovuto essere evacuate, creando un problema interno non indifferente per il Governo russo.
Anche il sistema logistico della regione ha subito gravi danni, con la distruzione dei ponti sul Sejm e il continuo utilizzo di droni e armi a lungo raggio. In questo senso, è corretto affermare che il cambio di rotta politico voluto da Donald Trump ha costituito un importante vantaggio per la Russia, privando in prospettiva Kiev di quel residuale peso negoziale che ancora avrebbe avuto mantenendo una presenza in territorio russo, nelle trattative alle quali gli Stati Uniti vogliono forzarla a aderire.
L’offensiva a sorpresa ucraina in Russia ha avuto due principali note di merito: mostrare all’opinione pubblica interna e al mondo (all’epoca c’era ancora Joe Biden alla Casa Bianca) che l’esercito era in grado di attaccare con successo e cercare di spezzare la guerra d’attrito in corso nel Donbass, dove la superiorità russa in uomini, munizioni e materiali avrebbe finito presto o tardi per prevalere, ignorando le spaventose perdite subite.
Tra gli elementi di debolezza, la mancanza di un chiaro obiettivo da raggiungere, che fosse Sudzha, il Sejm, la centrale nucleare di Kursk o addirittura il capoluogo stesso. Sono mancate inoltre, e non poteva essere altrimenti, le forze per tenere sul lungo periodo il territorio conquistato davanti a una reazione russa lenta, inefficiente ma preponderante.
Il terremoto politico portato dall’elezione di Trump alla presidenza, un leader politico che ha enfatizzato la propria antipatia personale per Zelensky e la totale sfiducia verso le possibilità ucraine, ha inferto poi un colpo fatale alle già pericolanti posizioni di Kiev nel saliente.
Al momento, l’unica possibilità per l’Ucraina di riprendere l’iniziativa, anche alla luce dell’apparente (ennesimo e difficilmente affidabile sul lungo periodo) ripensamento di Washington circa armi e intelligence, richiede un consistente concentramento di rinforzi che andrebbe però a sacrificare altre aree del fronte, in particolare nel Donbass. A meno di non richiedere una mobilitazione di nuove leve che dovrebbe essere sostenuta sia in termini umani che economici. L’esito nel Kursk, comparato invece con la brillante controffensiva ucraina di settembre-novembre 2022, dimostra ancora una volta che affrontare un avversario come la Russia sul piano del logoramento, o facendosi forzare a farlo, è del tutto controproducente. Una conclusione che getta, infine, più di un’ombra sulla tenuta dello sforzo bellico ucraino in generale.

Lorenzo Lena

Photo by RescueWarrior is licensed under CC BY-NC-SA

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Perchè è importante

  • L’esercito russo prevale nel Kursk, sfruttando preponderanza numerica e nuove debolezze ucraine.
  • Una conclusione prevedibile sul lungo periodo, che impone un grave fattore di debolezza a Kiev nelle future e ancora incerte trattative con Mosca.

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Lorenzo Lena
Lorenzo Lena

Nato a Udine nel 1995, conseguita laurea triennale in Scienze Internazionale e Diplomatiche a Gorizia, magistrale in Sciente Strategiche a Torino e infine Master di II livello a Udine in Intelligence e ICT. Da sempre appassionato dalla storia militare, man mano sempre più alle relazioni internazionali contemporanee fino a farne percorso accademico (ma senza mai dimenticare la storia). Mi interessa in particolare come i fattori storici influenzino le dinamiche odierne nelle aree di crisi e leggo più o meno ogni libro sulla Russia su cui riesco a mettere le mani.

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