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La Turchia e l’eredità di Gezi Park

Nel luglio 2013, la Turchia veniva agitata da proteste rabbiose. Le contestazioni, con epicentro nell’ormai celeberrimo ‘Gezi Park’ ed allargatesi poi a tutto il Paese, incendiavano le strade turche, con il serio rischio di rovesciamento del regime di Erdoğan. Dopo otto mesi, il punto sullo stato della democrazia.

GLI ANTEFATTI – In un clima già piuttosto teso, soprattutto a causa delle crescenti limitazioni alla libertà di stampa e all’utilizzo della rete decise nel corso degli ultimi mesi da parte del governo di Erdoğan, la proposta di rimozione di uno dei pochi spazi verde al centro di Istanbul, “Gezi Park”, ha scatenato alla fine di maggio del 2013 manifestazioni di protesta piuttosto violente. Nelle intenzioni del Governo, al posto del parco sarebbe dovuta nascere una ricostruzione della caserma militare Taksim, un vecchio edificio militare ottomano demolito nel 1940 e che era situato nell’omonima piazza, proprio nei pressi del luogo in cui oggi sorge il parco pubblico. All’interno della struttura, centri commerciali e appartamenti di lusso. Facile intuire come questo progetto, associato al malcontento popolare latente (ma non troppo) nei confronti di Erdoğan, abbia fatto esplodere la protesta, guidata in prima linea dagli ambientalisti e soprattutto dall’opposizione laica e nazionalista, che non ha mai digerito la svolta islamica che il partito AKP del Premier ha cercato di imporre al paese negli ultimi anni.

LE TENSIONI E I PRIMI SEGNALI DI CRISI – La risposta all’occupazione dei manifestanti di Gezi da parte del Governo non si è fatta certo attendere. Due giorni dopo i primi insediamenti infatti la polizia effettua un primo blitz, seguito il giorno dopo da un vero e proprio attacco effettuato con lancio di lacrimogeni e utilizzo di idranti, che provoca il ferimento di centinaia di manifestanti e l’arresto, nel contempo, di circa sessanta persone. Una risposta che riflette in maniera indelebile l’insofferenza governativa nei confronti del libero dissenso e della libertà di espressione e associazione. In carica dal 2002 con una maggioranza parlamentare a dir poco significativa, e giunto ormai al suo terzo mandato, il “Partito della Giustizia e dello Sviluppo” (AKP) guidato dal premier Recep Tayyip Erdoğan ha dimostrato, soprattutto nel corso degli ultimi anni al potere, un’intolleranza crescente nei confronti dell’opposizione politica, della critica da parte dei mezzi di comunicazione e delle manifestazioni di protesta dei cittadini. Lo sgombero e le violenze avvenute a piazza Taksim hanno poi innescato una serie di proteste antigovernative in moltissime città del Paese, mettendo in luce un malcontento generale che covava sotto la sabbia da molto tempo. Il pacchetto di riforme democratiche annunciato dal Governo a fine settembre 2013 è rimasto un lodevole programma mai pienamente realizzato, e la dura repressione delle proteste avvenute dopo i fatti di piazza Taksim testimonia il fallimento del governo per quel che riguarda la protezione e la tutela dei diritti umani.

Il premier Erdoğan durante un summit al World Economic Forum
Il premier Erdoğan durante un summit al World Economic Forum

IL FANTASMA DELL’AUTORITARISMO – Nonostante Erdoğan e l’AKP abbiano contribuito ad ampliare e in un certo senso riformare il grado di civilizzazione della politica turca, dando ad esempio la possibilità di esercitare il potere di governo a politici eletti, non si può dire lo stesso per quel che riguarda uno dei problemi più radicati all’interno della tradizione repubblicana del Paese, vale a dire il riflesso dispotico profondamente insito nel sistema di Governo. Il fantasma dell’autoritarismo incarnato dalla figura carismatica – nonchè connotata da una forte leadership – di Erdoğan aleggia pericolosamente sulle teste dei cittadini turchi. L’azione di governo dell’attuale premier infatti è (quasi) sempre stata caratterizzata da una vera e propria mancanza di un controllo istituzionale serrato, oltre alla presenza di una “macchina statale” profondamente asservita ai suoi voleri; in questo senso l’azione del corpo di polizia durante lo sgombero di Gezi Park rappresenta un esempio lampante di tale modus operandi. Per non parlare della prospettiva del passaggio dall’attuale regime parlamentare a quello presidenziale, chiaramente e fortemente sostenuta da Erdoğan.

IL FATTORE ECONOMICO – È importante inoltre sottolineare come, oltre alle restrizioni sociali imposte dal governo dell’AKP, ci sia stato e ci sia tuttora un altro fattore che ha sicuramente contribuito ad agitare gli animi della popolazione, ovvero quello economico. Un fattore che potrebbe cambiare rapidamente le carte in tavola e le prospettive di un Paese tra i più floridi degli ultimi anni in termini di crescita. Secondo l’opinione di molti analisti infatti, il periodo migliore vissuto dalla Turchia – una sorta di “stagione d’oro” – iniziato  proprio in concomitanza con la presa del potere di Erdoğan nel 2002, sta lentamente volgendo al termine. Mentre nel corso dello scorso decennio il debito pubblico è vistosamente calato, l’inflazione ha subito una contrazione importante e soprattutto i redditi individuali si sono triplicati, la tendenza ora sembra aver cambiato direzione, con conseguenze immediate su una popolazione già messa a dura prova dalla politica sociale restrittiva del premier e del suo partito. Il Pil infatti, dopo anni floridi di segno positivo, ha subito una serie di forti contrazioni, con il picco del segno negativo (-0,5%) nei primi mesi del 2012, mentre il tasso di disoccupazione ha raggiunto punte mai toccate prima, arrivando nel gennaio del 2013 al 10,6%. Una situazione che ha sicuramente inasprito le tensioni.

RIFORME E SVILUPPI FUTURI – Sarebbe ingiusto non sottolineare gli sforzi che una parte del Governo sta cercando di portare avanti per modificare alcune leggi che limitano la libertà di parola. Sarebbe però altrettanto superficiale ritenere superato il problema. Le riforme portate avanti per tutto il 2013 non hanno ancora posto rimedio alla situazione di migliaia di procedimenti penali a carico di soggetti accusati di atti di violenza, che testimonia l’uso ancora improprio e piuttosto diffuso delle leggi antiterrorismo utilizzate come mezzo per perseguitare singoli attivisti, parlamentari, funzionari di partito, nonché studenti e avvocati detenuti per lunghi periodi in prigione con l’accusa di essere vicini al Partito comunista curdo (PKK). La violenta repressione attuata a piazza Taksim sottolinea inoltre l’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine nei confronti di manifestanti perlopiù pacifici: tutto ciò a testimonianza degli ostacoli che ancora permangono nella garanzia dell’incolumità personale e nella tutela dei diritti umani. Difficile prevedere fino a che punto possa spingersi la volontà del Governo di riformare concretamente i rapporti di potere, per garantire e sviluppare un livello di democratizzazione del Paese degno di nota. Da tutto ciò dipenderà, tra le altre cose, anche il rapporto tra la Turchia e l’Unione Europea. E Gezi Park da questo punto di vista potrebbe aver rappresentato uno spartiacque significativo.

Matteo Viola

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Matteo Viola
Matteo Viola
Nasco e cresco a Montefiascone, cittadina sulle colline dell’alto Lazio, per poi trasferirmi per motivi di studio a Roma, dove vivo ormai da dieci anni. Una laurea triennale in scienze politiche e una specialistica in relazioni internazionali conseguita nel 2013, con una tesi sul ruolo delle ONG e della società civile durante le ultime nordafricane del 2011, delineano il mio interesse per la geopolitica e per il mondo delle relazioni internazionali.
Tornato da poco a Roma dopo un’esperienza di cooperazione in Kosovo di dieci mesi, collaboro con diversi siti di informazione di politica internazionale e nutro un particolare interesse per tutto ciò che riguarda il Medio Oriente.
In tutto ciò, morbosamente appassionato di basket made in USA, di fotografia e di reportage.

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