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L’anno del Drago

Il Giro del Mondo in 30 Caffè – La Cina si conferma sempre più come principale potenza in ascesa. Lo stile di Pechino, però, è decisamente peculiare e non punta all'aggressività, bensì ad un uso sapiente e misurato del soft power. Dai rapporti sempre più stretti a livello finanziario con gli Stati Uniti, fino alle politiche insospettabilmente all'avanguardia in tema ambientale, la Cina sta gettando basi sempre più solide per essere in grado, un giorno, di dominare nel gioco delle potenze globali  

IL DRAGONE SI E' SVEGLIATO – “Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà”. Così, meditò Napoleone dopo aver letto i diari di Macartney, respinto senza successo dalla Corte Celeste dopo esser stato inviato nel 1793 in missione in Cina dal Re Giorgio, per essere accreditato come ambasciatore britannico permanente. All’indomani delle guerre dell’oppio, con la stipula dei trattati “iniqui” di Nanjing e Tianjin, nessuno avrebbe scommesso sull’avveramento della profetica e lungimirante sentenza napoleonica. Per tutto il XIX  e XX secolo, alla possibilità di un ritorno della supremazia cinese non ci avrebbero mai creduto neppure Gran Bretagna, Francia, Russia e Stati Uniti, impegnate ad estorcere vantaggiose concessioni economiche e a costringere la Cina a riconoscersi quale attore periferico, a margine di un nuovo ordine mondiale non più sinocentrico. Eppure, lungo la spina dorsale del Dragone, quietato da un sonno apparentemente mortale, per duecento anni è sempre fluito un midollo vitale, quello del grande Zhong Guo, il Paese di Mezzo con i suoi cinquemila anni di storia, imperante sul tianxia, su “tutto ciò che sta sotto il cielo”.

ASCESA PACIFICA – Nel corso del primo decennio del XXI secolo, definito dagli analisti di tutto il mondo come “il secolo cinese”, abbiamo assistito al risveglio del Dragone in campo economico e militare. Tuttavia, nel 2011, appena lasciato alle spalle, siamo stati testimoni dei primi tentativi di realizzazione del suo progetto di “ascesa pacifica” nell’agone politico internazionale come futura grande potenza regionale e globale. Mai, come in questi ultimi mesi, mentre la crisi del debito imperversa irrefrenabile nel Vecchio Continente e negli Stati Uniti, i cinesi, detentori delle più cospicue riserve valutarie al mondo (stimate intorno ai 3200 miliardi di dollari)  e del 25,67% (1152,5 miliardi di dollari) del debito americano, hanno ribadito la necessità di costruire un ordine mondiale pacificato, hexie shijie. Il nuovo sistema internazionale “alla cinese” dovrebbe essere governato dall’armonia e dall’equità, così da rinforzare i legami interstatali di partnership e di confidence-building, accrescere il livello di cooperazione bilaterale e multilaterale e neutralizzare il rischio di una deriva dell’interdipendenza economica e della globalizzazione. Presentata per la prima volta durante il Forum di Bo’ao nel 2003, l’ascesa pacifica del Paese, heping jueqi come la chiamano i cinesi, è divenuta ora la pietra angolare della dottrina strategica di Pechino, finalizzata a riscattare la vecchia percezione esterna della Cina come “minaccia” per l’Occidente proponendone una nuova di responsible stakeholder, accortamente integrato nel sistema mondiale e nelle organizzazioni regionali e internazionali, capace di fidelizzare, conquistare la credibilità e riscuotere il consenso dei partners vicini e lontani.

SOFT POWER E IL RITORNO DELLA TRADIZIONE – In che modo Pechino intende rinforzare il Beijing-consensus e accrescere la propria influenza nel mondo? Se è vero che una grande potenza si distingue per il duplice esercizio dell’hard power e del soft power, del potere della minaccia e degli incentivi, (quello del bastone e della carota per intenderci) e di quello invisibile ma penetrante della fascinazione culturale, allora possiamo riconoscere questo status senza alcuna difficoltà alla Cina. Anzi, molto di più. Dalle eminenze grigie nei palazzi del potere di Pechino giungono i moniti e il richiamo allo sforzo di accrescere proprio le risorse di soft power (il Zhongguo ruan shili) come la diplomazia, la cultura, gli ideali, i valori e le pratiche politiche del Paese di Mezzo, le uniche capaci di consolidare il consenso esterno e interno, attraverso l’attrattiva e l’influenza. L’essay culturale del Presidente Hu Jintao, pubblicato a gennaio sul giornale del Partito Comunista Cinese, conferma la scelta dei dirigenti di Pechino di esercitare maggiormente il soft power, come prospettiva di sviluppo per il 2012, per valorizzare la cultura e migliorare la competitività della Cina a livello mondiale. “A livello internazionale, [..] la valorizzazione della cultura e del soft power per migliorare la competitività di base del paese è una strategia fondamentale […] Solo chi ha un soft power ed una influenza culturale forte sarà in grado di vincere la competizione internazionale”. Quello che Hu non dice manifestamente ma sottintende è che per vincere questa competizione internazionale occorre prima esercitare il potere dell’attrattiva entro i confini nazionali, ritornare alla “vecchia cultura” e agli antichi valori confuciani dell’autorità morale (zhi) e della rettitudine (yi). È necessario rinvigorire il Beijing-consensus, messo a dura prova negli ultimi mesi dalle rivolte dei migranti rurali di Wukan e degli operai di Chongqing, stremati per l’alto tasso di inflazione (+6%), i bassi salari, l’aumento dei prezzi dei beni alimentari, il sequestro e la privatizzazione delle terre.

LA CRISI DEL CREDITO NEL MERCATO DOMESTICO – Il ritorno alla disciplina confuciana e la costruzione di un ordine sistemico armonico, secondo i leaders di Pechino, devono essere applicati soprattutto al mercato finanziario internazionale e domestico. Il 2011 è stato l’anno delle brusche frenate e del rallentamento della crescita “dell’economia socialista di mercato”. Nonostante l’impegno per tutelare il mercato interno dalle bufere finanziarie internazionali e il suo noto gradualismo nell’apertura del Paese ai capitali ed investimenti esteri, la Cina ha iniziato a sentire i primi contraccolpi della crisi economica globale che tormenta i mercati europei, primi partners commerciali con i quali Pechino ha concluso accordi commerciali per 2,13 miliardi di dollari. A preoccupare i cinesi non è solo la crisi del debito sovrano nei paesi dell’Eurozona ma la crisi del credito che opprime il mercato finanziario domestico, conseguenza non voluta proprio dello sviluppo economico accelerato e del boom del mercato immobiliare, che ha fatto lievitare vertiginosamente i prezzi delle case. La politica di contrazione dei prezzi disposta dal governo non è finora riuscita a stabilizzare il mercato e al contrario accresce la possibilità di una implosione della bolla speculativa.

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CINA, POTENZA REGIONALE – Per ascendere al rango di grande potenza globale è necessario che la Cina acquisisca prioritariamente la supremazia regionale. È sullo scacchiere geopolitico del sud-est asiatico e dell’Asia centrale che Pechino proietta i propri interessi strategici, lungo le rotte marittime che percorrono il bacino del Mar cinese meridionale ed orientale fino all’Oceano Indiano, nei corridoi terrestri dell’antica via della seta e nel fondo marino che custodisce ingenti risorse energetiche di idrocarburi e minerali. La chiave di volta della politica regionale cinese è stata definita recentemente dal premier Wen Jiabao durante il 14° Summit  Cina-ASEAN. Il partenariato strategico, il rafforzamento della cooperazione e della politica di buon vicinato, sono la forza motrice dello sviluppo economico e della stabilità sociale in Asia, l’area più dinamica al mondo. Il 2011 verrà ricordato come l’anno in cui la Cina ha manifestato apertamente di aver scelto, come first-best option, la via della diplomazia multilaterale e della partecipazione nelle organizzazioni regionali per imporsi nell’arena politica mondiale, sottolineando la necessità di stabilire relazioni collaborative e non conflittuali per accelerare il ritmo della crescita economica e risolvere pacificamente le controversie regionali. La realpolitik di Pechino ci induce ad escludere l’intenzione di imminenti offensive militari nel Mar Cinese Meridionale, inopportune e controproducenti proprio ora che il Paese sta tentando di conquistare la credibilità internazionale e il nucleo dirigente del PCC si prepara a passare il testimone del potere alla quinta generazione di nuovi leaders. A ben osservare, il recupero della centralità della Cina nello scenario mondiale, quale arbitro dell’equilibrio finanziario, solutore finale della crisi del debito in occidente e custode della sicurezza regionale nello scacchiere geopolitico dell’Asia-Pacifico, ricorda l’unicità del Paese di Mezzo nel vecchio sistema sinocentrico, oggi come allora perno della “Grande Armonia”.

PROVE GENERALI DI MULTILATERALISMO –  La RPC non pare a suo agio nello stereotipo di ‘pericolo giallo’ o ‘minaccia che avanza’ in cui l’Occidente l’ha relegata, e vuole veicolare un’altra immagine di sé: quella di un interlocutore affidabile, di una Cina responsabile, che cresce nella ricchezza ma non si rende estranea ai fori della politica multilaterale, Nazioni Unite in testa. La crescente presenza cinese nelle operazioni di peacekeeping testimonia proprio questa volontà della Cina di collaborare a pieno titolo alle azioni della comunità internazionale, peraltro in un momento storico in cui le missioni di supporto alla pace diventano sempre più complesse e costose, sia in termini di personale impiegato che in termini di risorse necessarie per raggiungere gli obiettivi. Infatti, se i paesi occidentali continuano a contribuire al peacekeeping da un punto di vista finanziario, il personale che questi stessi paesi mettono a disposizione delle operazioni di pace va sempre più riducendosi. La Cina sopperisce a queste carenze, al punto da essere ormai il primo membro permanente del Consiglio di Sicurezza per la percentuale di peacekeepers inviati in missione. Ciò dimostra come la RPC non sia più un paese isolato come al tempo di Mao o, più recentemente, all’indomani delle proteste di Tiananmen, bensì un paese ormai perfettamente integrato nelle dinamiche politiche internazionali. Nel giro di trent’anni la RPC è passata dalla ferma condanna del peacekeeping ad una piena partecipazione a missioni intrusive come quella in Kosovo o a Timor Est. Se negli anni Settanta Pechino riteneva inaccettabile qualsiasi tipo di intervento militare all’estero, oggi l’impegno sotto l’ombrello ONU in materia di peacekeeping e peace-building è uno dei perni attorno al quale ruota la nuova politica estera cinese e dal quale sorgono anche innumerevoli benefici pratici, dalla protezione degli interessi economici cinesi all’estero (grazie ai contatti con gli host countries delle missioni, soprattutto in Africa) alla creazione di nuove reti d’influenza alla conferma della diplomazia della ‘superpotenza responsabile’.

GO GREEN, PRIMA DI USA E INDIA – Ma l’agenda multilaterale di collaborazione Cina-ONU non si ferma al peacekeeping, come mostrato dalla recente apertura di Pechino al vertice ONU sui cambiamenti climatici di Durban. Mentre gli USA restano incerti sul going green, uno dei capi della delegazione cinese, Xie Zhenhua, ha reso note le condizioni secondo le quali la Cina sarebbe pronta a un impegno vincolante sui tagli delle emissioni dannose. Il lancio del China’s National Climate Change Forum (CNCCF) garantisce che non si tratta di promesse approssimative: la Cina starebbe lavorando per frenare le sue emissioni, quasi il 24% di quelle prodotte annualmente da tutto il pianeta, e la pagella annuale di Climate Action Network Europe ha lodato gli sforzi fatti da Pechino nel 2011. Alcuni osservatori hanno parlato di impegno “verde” della RPC a fini geopolitici, in ambito sia globale che regionale. La Cina vorrebbe imporsi come nuova potenza nella ricerca e produzione di green technologies prima che questo ruolo venga assunto dall’India, e allo stesso tempo mostrarsi più affidabile degli USA. 

LA SFIDA DELLA SCO – Negli ultimi anni la fiducia dell’esecutivo di Pechino nelle dinamiche  multilaterali è aumentata notevolmente, tanto che la Cina si presenta – o vorrebbe presentarsi- anche come paese trainante in ambito della Shanghai Cooperation Organization. La SCO è una porta aperta verso l’Asia Centrale, area oltremodo significativa per l’approvvigionamento energetico della RPC, e una piattaforma politica dove la Cina incontra la Russia. Mosca, potenza da sempre influente nella regione eurasiatica, si trova oggi a dividere la scena con Pechino, che è diventata leading investor in Asia Centrale, approfittando della debolezza del settore bancario dei paesi ex satelliti URSS. Un esempio? L’ingresso di Bank of China e di Chinese Industrial and Commercial Bank in Kazakistan hanno portato all’acquisto di diverse gas corporations da parte della China Petroleum Corporation, e al lancio del colossale progetto di gasdotto Beineu-Bozoi-Akbulak. Tutto ciò, chiaramente, ha eroso l’influenza politica della Russia in Eurasia.  All’ultimo summit della SCO, che nel 2011 ha celebrato i suoi primi 10 anni sulla scena, Pechino e Mosca non sono neppure riuscite a instaurare un vero dialogo: la prima parlava di ambiziosi progetti di integrazione economica e ulteriori vantaggi commerciali in materia energetica, mentre la seconda cercava di riequilibrare la rotta della SCO verso un vero multilateralismo, appoggiando un bid di ingresso da parte dell’India. Il mese scorso, in occasione della visita ufficiale del primo ministro indiano Singh in Russia, Medvedev ha ribadito che l’India ha il pieno appoggio di Mosca e che le procedure per farla passare da osservatore a paese membro devono essere accelerate, al fine di introdurre nella SCO una ‘nuova dimensione’ e garantire una ‘più ampia cooperazione regionale’.

ARMAMENTI E AMBIZIONI – Un ulteriore nodo di frizione nel quadrilatero USA-Russia-Cina-India deriva dalla recente – e silenziosa- svolta cinese in materia di armamenti. Negli ultimi anni l’esercito e la marina cinesi sembrano aver compiuto un vero e proprio balzo in avanti, presentato dalle fonti ufficiali del Partito Comunista come semplice ammodernamento di una forza militare concepita a fini difensivi.  Eppure, il confine tra la necessità di difendersi il desiderio di supremazia nell’area Asia-Pacifico è tutt’altro che chiaro. Il giornale cinese Global Times, voce del governo di Pechino, ha spesso descritto la corsa agli armamenti con toni piuttosto aggressivi, soprattutto negli ultimi 12 mesi. I cinesi si sono imposti all’attenzione globale, e del Pentagono in primis, grazie a due episodi di notevole rilevanza: quello dei caccia J-11 e quello della portaerei Shi Lang. Il primo è un caso di “made in China” di un vecchio modello di caccia russo, il Su-27, che la Cina aveva importato per la prima volta negli anni tra il 2000 e il 2004. Solo tre anni più tardi, la Cina aveva rivelato al mondo il suo J-11, una versione largamente ispirata al modello russo, ma migliore da diversi punti di vista. Da lì al nuovissimo modello JF-17 è bastato poco, e  oggi la Cina è diventata esportatrice di caccia, tanto da contendersi il mercato egiziano e quello birmano proprio con la Russia. Uno scenario del genere sarebbe stato impensabile fino a dieci anni fa, quando la stessa Pechino comprava vecchi aerei sovietici. Shi Lang è un caso ancor più preoccupante per gli americani, dato che si tratta di un’enorme portaerei che potrebbe inaugurare una stagione di ambizioni e rivendicazioni cinesi nel Pacifico. Come si comporterà la RPC quando Shi Lang non sarà più un caso isolato ma sarà ben integrata in una rinnovata potenza navale cinese? Washington preferisce non pensarci. Quel che è certo è che il nome della modernissima portaerei cinese non promette nulla di buono. Shi Lang è il nome dell’ammiraglio Manciù che, nel 1681, invase e conquistò il regno di Tungning, un’isola che oggi si chiama Taiwan. Maria Dolores Cabras e Anna Bulzomi [email protected]

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