Un Caffè americano – Un tattico, uno stratega, un progressista pragmatico, un Nobel per la pace o più semplicemente il presidente della prima potenza mondiale, Obama in questi quattro anni si è districato tra sfide difficili, promesse da mantenere e un’immagine da salvaguardare. Dove e come ha guidato gli USA nelle scelte di politica estera
IN & OUT – Nel valutare la proiezione della potenza americana verso il mondo degli ultimi quattro anni, è necessario tenere conto dell’impostazione che Obama avrebbe voluto dare alla sua amministrazione, delle promesse fatte agli elettori americani e di come la realtà delle relazioni internazionali abbia modificato l’atteggiamento degli Stati Uniti nell’ultimo mandato presidenziale. Le convinzioni strategiche di Obama, al momento del suo insediamento, sono state sintetizzate molto bene sul The New Yorker da Ben Rhodes (speechwriter di Obama per la politica estera) in tre punti: la prima convinzione era la stretta connessione che la politica domestica, in particolare quella economica, dovesse avere con la politica estera e di sicurezza nazionale; la seconda era l’idea che gli Stati Uniti fossero impegnati con uomini e risorse nei posti sbagliati; l’ultima era l’opinione che l’amministrazione precedente avesse portato la reputazione internazionale degli Stati Uniti ai minimi storici. Sostanzialmente Obama, con slogan evocativi come hope e change, aveva promesso agli elettori di ridare prestigio agli USA, terminare le guerre iniziate dal suo predecessore, chiudere Guantanamo, intavolare il processo di pace in Medio Oriente e vincere la guerra al terrore. Il ritiro delle truppe dall’Iraq è stato un successo politico e mediatico della presidenza Obama, nonostante sia stato un continuum nel processo occupazione-ricostruzione-ritiro prevista già da Bush. Inoltre a ciò è corrisposto l’invio di ulteriori trentamila soldati in territorio afgano, dove la fine dell’occupazione militare vera e propria è prevista per il 2014. Altra promessa che può dirsi mantenuta è una svolta nella guerra al terrore: l’uccisione, nel maggio 2011, di Osama bin Laden ha ridato popolarità a un presidente in forte calo di consensi. Inoltre l’incremento dell’utilizzo dei “droni” ha permesso l’eliminazione di diversi gruppi riconducibili ad al-Qaeda e ad altre cellule terroristiche, ad un minor costo in termini di risorse e di personale militare. Basti pensare che durante l’era Bush gli attacchi degli aerei manovrati a distanza erano uno ogni quaranta giorni, con Obama questo tipo di incursione è salito a un attacco ogni quattro giorni. Più difficile da spiegare agli elettori sono altri due aspetti: uno è la mancata chiusura della base di detenzione di Guantanamo, dovuta sia ad opportunità politica (non perdere il “grande centro” elettorale conquistato dai democratici nel 2008) sia per la difficoltà di chiarire lo status giuridico dei prigionieri; l’altro è il completo fallimento di ripresa del processo di pace in Palestina. Complessivamente, nel modo di affrontare le relazioni internazionali, il presidente Obama è stato definito un “pragmatico” e di esercitare la sua leadership “from behind” (“da una posizione di retroguardia”). Il professor Drezner, in un aricolo su Foreign Affairs, ha sintetizzato la grand strategy obamiana nelle espressioni multilateral retrenchment, condividere costi e oneri politici con gli alleati, e counterpunching, riaffermare l’influenza e i valori americani solo dove minacciati.
VICINO E MEDIO ORIENTE – Il discorso di Obama a Il Cairo del giugno 2009 avrebbe dovuto porre le basi per una nuova immagine americana, amica dei popoli musulmani. In un certo senso, voci importanti dell’amministrazione sostengono che la primavera araba abbia proprio avuto il “benestare” americano in quell’occasione. È nel Mediterraneo e nell’area mediorientale che i cambiamenti della politica americana sono apparsi più visibili. L’appoggio politico ai movimenti insurrezionali, a discapito di regimi stabili (di solito militari) da sempre ritenuti da Washington una risorsa, è stata un’innovazione nella politica estera statunitense (si guardi soprattutto all’Egitto, o alla Tunisia per esempio). Il fatto di non volere intervenire in prima linea nell’operazione Odissey Dawn in Libia, fornendo solo supporto logistico e militare e lasciando l’onere politico a Francia e Regno Unito, ha ribaltato la concezione della leadership americana dell’era Bush. Il concetto di leading from behind (o multilateral retrenchment) ha radici politiche e di immagine pubblica (in continuità con il discorso al Cairo) ed economiche. Infatti i dispendiosi impegni precedenti, in Afghanistan e in Iraq, non sarebbero stati replicabili in Libia, per via dell’ammontare del debito pubblico americano (ora oltre i 16 mila miliardi di dollari) e per i tagli al budget della Difesa (di quasi il 20% nei prossimi dieci anni, secondo l’Economist). Lo stesso vale per il caso siriano, dove ad esporsi sono gli alleati americani più direttamente coinvolti nel processo di transizione (Turchia, Qatar e Arabia Saudita), con gli americani in posizione di retroguardia. Anche i rapporti con Israele hanno avuto un cambio di rotta, rispetto all’appoggio incondizionato del presidente Bush. Nel 2010, il presidente Obama aveva dichiarato all’Assemblea Generale dell’ONU che entro un anno si sarebbe vista la nascita di uno Stato palestinese, nel maggio 2011 affermava che lo Stato israeliano dovesse tornare ai confini del 1967. Oltre alle dichiarazioni pubbliche, la gestione del processo di pace in Palestina non è però stata portata avanti, restando una promessa non mantenuta dall’attuale amministrazione, pur se condizionata dalla delicata situazione in Egitto e in Siria. Inoltre i rapporti con l’alleato israeliano rimangono abbastanza tesi soprattutto per il dossier Iran. Obama ha temporeggiato il più possibile per non dover affrontare la questione delle dotazioni atomiche iraniane, prima delle elezioni di novembre, rifiutando anche di incontrare “l’amico Bibi” in forma privata durante le consultazioni ONU a New York.
IL QUADRANTE AF-PAK – Dilatando il quadrante mediorientale si arriva alla spinosa questione afgana, che ha occupato spesso i pensieri e l’agenda del Dipartimento di Stato. Nonostante l’accordo degli Stati Uniti con gli alleati nella missione ISAF, per concordare una exit strategy, la meno dolorosa possibile, la situazione sembra tutt’altro che risolta. Nel maggio 2012, durante la Conferenza di Chicago, è stata confermata la data del 2014 come punto di svolta della missione. È stato, così, rafforzato il cosiddetto “processo di Kabul” (iniziato nel 2010), che complessivamente si occupa di diversi temi tra cui economia e questioni sociali, ma soprattutto determina il passaggio di responsabilità della sicurezza del Paese alle forze locali. Il compito principale delle forze sul campo è quello di affiancare e addestrare i militari e gli agenti di polizia afghani (circa il 95% delle unità afghane è stato affiancato da forze della coalizione). In questo momento, il programma è stato però sospeso con urgenza, visto i numerosi attentati alle forze americane e alleate. La maggior parte delle vittime è causata da poliziotti o soldati afghani infiltrati (a causa delle falle nel sistema di reclutamento) o passati con i talebani, che colgono di sorpresa addestratori o entrano facilmente nelle basi compiendo attentati sanguinari (cosiddetti attacchi green on blue). La paura di infiltrazioni terroristiche è tale che anche il plotone cerimoniale che accoglie le delegazioni a colloquio con Karzai ha in dotazione fucili scarichi.
ALTALENA PAKISTAN – Diversi analisti sostengono che del quadrante Af-Pak sia però il Pakistan l’elemento fondamentale. Infatti se la dotazione nucleare di Teheran è solo una possibilità, quella pakistana è reale e conta diverse testate atomiche. Il rapporto tra Washington e Islamabad è però altalenante. Durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan si era venuta a creare un’alleanza strategica e un flusso di dollari dagli Stati Uniti, tutto a favore della classe dirigente pakistana. Tale flusso si era completamente interrotto durante gli anni Novanta per poi riprendere vigorosamente dal 2001 in avanti. Per questo motivo si capisce la volontà del Pakistan di non cercare una soluzione definitiva per la questione afghana, che comporterebbe sicuramente una nuova interruzione degli aiuti economici americani. Questa titubanza del governo pakistano si riflette sulla politica americana verso Islamabad. Il presidente Obama ha aumentato notevolmente le incursioni dei droni e i bombardamenti nelle aree tribali e in Waziristan settentrionale e meridionale, zone insediate da numerose cellule terroristiche. Non ha cercato però intese con il Pakistan su operazioni delle squadre speciali ad alto impatto mediatico, come quella che, nel maggio 2011, ha portato all’uccisione di Osama bin Laden nel villaggio di Abbottabad, provocando un senso di umiliazione agli apparati di sicurezza pakistani, sfociato poi in proteste e manifestazioni anti-americane. A minacciare maggiormente i delicati rapporti tra USA e Pakistan è anche l’intensificarsi delle buone relazioni tra Stati Uniti e India, soprattutto dal momento in cui Nuova Delhi ha iniziato ad interessarsi attivamente alla stabilizzazione dell’Afghanistan. L’India potrebbe rivelarsi molto utile alla causa americana, non solo per riequilibrare le forze nel quadrante Af-Pak, ma anche per una politica di contenimento delle mire cinesi.
(I. continua)