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Abbecedario del mercato degli armamenti

Miscela Strategica Ogni volta che si manifesta una crisi internazionale si accendono i riflettori sul mercato degli armamenti, specialmente sull’export. Spesso il dibattito sul tema viene alimentato con posizioni di principio più che con soluzioni a problemi di politica internazionale, di cui la compravendita di armamenti è un’espressione più che una causa.

Proviamo a spiegare in maniera più semplificata e schematica possibile come funzionano la produzione e l’acquisizione di armamenti, nel tentativo di aiutare la comprensione di alcune dinamiche di base

Cominciamo spiegando le logiche che sottendono la produzione di armi e la loro vendita. Che ruolo ha oggi il mercato degli armamenti?

1) Fucina degli Stati – Da qui nascono le dinamiche più importanti: chi è indipendente strategicamente, ovvero è in grado di produrre da solo tutto ciò che serve per la difesa dei propri interessi nazionali e internazionali, non è ricattabile dagli altri sul piano militare e non è embargabile (ipotesi teorica, USA e Russia sono le uniche quasi-eccezioni, la Cina segue a ruota). Questo spiega la ritrosia a cedere o rinunciare a capacità produttive di spicco anche quando l’industria della difesa va in perdita. Il Paese che non è in grado di produrre le proprie armi è dipendente dall’alleato che gliele ha fornite. La maggior parte dei Paesi sono in una situazione intermedia, quindi ci sono numerose combinazioni possibili nei rapporti di interdipendenza.

2) Mezzo di politica estera – Dalle disparità di cui sopra e dai rapporti di forza tra chi può produrre e vendere deriva anche l’utilizzo della vendita e dell’acquisto di armi come mezzo di politica estera. Si vende agli alleati perché si facciano carico della sicurezza di un certo interesse (un passaggio obbligato, una risorsa, un contesto geopolitico, ecc.) e si acquista dagli alleati non solo per necessità, ma anche per offrire contropartite al loro essere alleati e/o partner economici (il caso dei Paesi arabi è emblematico). Anche qui le dinamiche sono tante, in quanto questo discorso si può declinare in ben 193 sfumature diverse – una per ciascuno Stato della comunità internazionale.

3) Propulsore economico e tecnologico – Sopravvalutato come fattore, si trova in realtà ai piedi della piramide strategica. Oggi il mercato degli armamenti ha acquisito alcune logiche del normale mercato dei beni. Perché? Il costo di tenere in piedi l’industria bellica senza consistenti ordinativi statali è elevato. Maggiori sono le commesse che si riescono a intascare dall’estero, più una capacità di produzione bellica è sostenibile. Tutelare la capacità produttiva significa poterne disporre all’occorrenza; dal momento che tale capacità non si può improvvisare ma richiede decenni per essere costruita, chi la possiede difficilmente vi rinuncia anche quando l’industria va in perdita dal punto di vista commerciale (vedi punto 1). Mantenere la capacità di produrre armamenti validi consente inoltre di proporsi con interessanti contropartite in politica estera (vedi punto 2) e mantenere, per quanto possibile, le condizioni desiderabili secondo il  punto 1 (ad esempio in Europa si fa fatica a capire che i singoli Paesi non possono più illudersi di poterlo fare autonomamente). Da qui la corsa all’esportazione, che sgrava lo Stato di parte dei costi che dovrebbe sostenere per mantenere la capacità autonoma o lo salva dal rivolgersi all’estero con le servitù che ne conseguono. Per Paesi che non brillano per iniziativa privata, come l’Italia, questa compensazione si traduce anche in investimento pubblico in comparti ad alta tecnologia le cui conoscenze vengono poi condivise con il mercato civile. L’avanzamento tecnologico permette altresì di conservare il “vantaggio tecnologico” su un eventuale avversario. Senza questo motore, Paesi come il nostro (e come altri in Europa, per esempio Francia, Spagna, Olanda, Polonia) sarebbero molto più arretrati.
Di conseguenza, come sottoprodotto del punto 3 – diciamo 3bis – per Paesi come il nostro i punti 2 e 3 si declinano anche nel raggiungimento della stabilità e della pace internazionale, che permettono il proseguimento di questo circolo virtuoso (vedi anche sotto).

Questo semplice modello può essere applicato a qualunque Paese. Ciascuno si interfaccerà con questi tre postulati secondo il proprio ruolo internazionale.

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FALSE FRIENDS – I tre postulati fondamentali hanno delle conseguenze importanti sul modo di interpretare i fenomeni – positivi e negativi – che riguardano il mercato degli armamenti. In particolare, una conoscenza superficiale o parziale delle dinamiche a essi correlate porta a percezioni errate, in toto o in parte, di alcuni fenomeni, come il commercio illegale di armi, l’alimentazione del terrorismo internazionale, gli interessi economici e la relazione tra armamenti e guerra. Vediamo alcuni casi comuni e proviamo a leggerli all’interno del contesto delineato dai tre postulati di base:

1)  Meno armi = meno guerre – L’arma è lo strumento di una volontà politica. Chi vuole adottare una postura assertiva o violenta trova il modo di farlo a prescindere dalla quantità di armamenti. Il rapporto tra armamenti e guerre non è di natura lineare. Gli armamenti e la loro produzione rappresentano un elemento non scindibile dal conflitto, ma non ne sono causa, bensì conseguenza. Alcuni esempi spiegano bene queste affermazioni:

  • Il SIPRI Yearbook registra da anni il decremento della spesa per armamenti negli Stati Uniti e in Europa da oltre un decennio (complice anche la fine delle campagne in Iraq e Afghanistan), ma i livelli di conflittualità in queste aree non sono diminuiti. Anzi, nel caso europeo, le crisi a noi vicine e che ci colpiscono direttamente sono al contrario aumentate. Chiaramente non è vero nemmeno il contrario: più armi non significa automaticamente più sicurezza. Il punto è che i problemi legati al conflitto nascono principalmente dalla governance, sia essa interna o esterna. Quando la governance fallisce, si passa alle armi, indipendentemente dal loro quantitativo.
  • Quando si cominciò a fare peacekeeping in Africa si partì dall’assunto che disarmare le parti avrebbe portato la pace e si cominciò a disarmare le varie fazioni – che cominciarono ad affrontarsi con machete, zappe e forconi. Questo riporta al punto iniziale, ciò che conta è la volontà di farsi la guerra. Le armi sono uno strumento, talvolta materiale altre volte politico, attraverso il quale la conflittualità viene palesata.
  • Rinunciare alle armi è un gesto nobile, ma la comunità internazionale ha ancora natura anarchica e sono molto poche le regole davvero comuni che si sia riusciti a concordare. Di conseguenza, diminuire la quantità di armamenti se la minaccia diretta decresce è corretto, ma rinunciare alle armi non è possibile. L’unico spazio geopolitico nel quale un Paese non debba temere nulla dal suo vicino è l’Unione europea, che rappresenta un’eccezione (il Global Peace Index continua a riportare l’Europa come la regione più pacifica al mondo). Si tratta infatti di appena 28 Stati, gli altri 165 che compongono la comunità internazionale si regolano diversamente. Tanto meno la difesa è credibile, tanto più un attore internazionale ostile è tentato di portare il confronto sul piano militare. E questo vale anche per l’Unione europea.

2) Le industrie vendono armi ai terroristi – Le industrie della difesa non vendono armamenti ad attori non statali, non possono (possono vendere solo pochissime categorie di armi a privati e sempre sotto controllo statale). Sono gli Stati che girano, vendono, ecc. gli armamenti ad attori non statali quando vogliono farlo, oppure falliscono e/o perdono il controllo sulle armi, che finiscono su un mercato parallelo e completamente illegale (che vale circa il 10% di quello legale, quindi 7,6-8 miliardi di dollari annui). Mercato oltretutto alimentato dalla crescente quantità di Stati falliti e che perdura nel tempo: un’arma leggera dura tra i 20 e i 50 anni, secondo manutenzione e utilizzo. Per fare l’esempio Stato Islamico, una parte delle armi proviene da quelle abbandonate dagli eserciti iracheno e siriano in ritirata, ma la gran parte viene da ex-Jugoslavia, Ucraina, repubbliche ex-sovietiche. Per fare un esempio di questi giorni: se le industrie europee vendono ad Arabia Saudita o Qatar, i cui ricchi notabili sono accusati di alimentare il terrorismo, i gruppi terroristici non avranno fucili Beretta, mitragliatrici Heckler&Koch o pistole Glock. Quelle vendite hanno tutt’altro scopo, ricollegabile ai tre postulati spiegati sopra.
Gli Stati sono molto gelosi della loro esclusività nell’acquisto di armamenti (arma non significa armamento, il valore bellico di un’arma ne fa un armamento o meno). La stragrande maggioranza del fatturato degli armamenti riguarda sistemi d’arma che solo uno Stato può impiegare, mentre le armi leggere sono una frazione di esse. Una nave, un carro armato, una batteria di artiglieria, un caccia, non sono operabili facilmente e in numeri rilevanti (ovvio che poi qualche veterano si trova) da un’organizzazione terroristica pur ricca perché per utilizzarle efficacemente ci vogliono anni di addestramento, manutenzione continua, rifornimento di parti di ricambio, dottrina operativa, ecc.

3) Le industrie di armi festeggiano quando ci sono le guerre, anzi le aizzano per vendere di più. Dipende da tantissimi fattori, nella maggior parte dei casi è falso. Il grosso del fatturato, come già detto, proviene da programmi di armamento degli Stati, che vengono programmati su base pluriennale. Per essere chiari: se la Russia oggi viene percepita come una minaccia per la Finlandia, il Paese avvierà dei programmi di armamento che richiederanno dai 2 ai 10 anni per essere implementati. Se fra 6 mesi le tensioni UE-Russia decrescessero, i programmi verrebbero rivisti o cancellati. Il destino dell’industria dipende dalla minaccia per la quale devono equipaggiare gli Stati, non da forniture di armi leggere o di munizioni a soggetti non statali.
Inoltre, nel caso europeo, le industrie non vendono per norma ai Paesi in guerra (ovviamente lo Stato, invece, può farlo, prendendo dalle proprie forniture, se lo ritiene, ma il soggetto industria NO). Ciò significa che già da prima che un conflitto scoppi le forniture vengono sospese o cancellate. E questo arreca danno economico alle industrie occidentali, non gioia. La gioia è per quei Paesi che non rispettano questi codici di condotta e proseguono le forniture. Menzione meritano in tal senso anche gli embarghi sulle armi: una buona punizione politica, peraltro efficace nel breve periodo, ma un embargo di lunga durata provvede spesso un’ottima motivazione che lo Stato embargato può presentare all’opinione pubblica per giustificare l’investimento di grossi capitali per lo sviluppo dell’industria nazionale (ad esempio Iran o Sudafrica). Via via che questo Stato diventa strategicamente indipendente, la leva dell’embargo o della minaccia dello stesso, diventa sempre meno efficace (ad esempio il caso della Cina).
Infine, gli Stati Uniti sono spesso tacciati di far scoppiare le guerre per vendere armi. Il Paese è il primo produttore al mondo di armi e armamenti, ma anche il primo consumatore. Washington ha una politica globale e quindi, anche senza guerre, se vuole mantenere questo ruolo deve spendere tanto per mantenere un apparato militare commisurato. Il grosso del business delle armi statunitensi è quindi questo, non la conflittualità in sé. Per citare alcuni dati, nel 2015 gli Stati Uniti hanno speso circa 600 miliardi di dollari in armamenti. Di questi, l’export conta per circa 23,5 miliardi, una cifra decisamente minoritaria rispetto al gigantesco mercato interno, e decisamente non incisiva sul PIL statunitense. Provocatoriamente, considerando il QE attuale della FED, se quei 23,5 miliardi annui fossero davvero determinanti, la FED potrebbe stamparli in poco tempo.

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CONCLUSIONI –  La compravendita di armi rappresenta un pezzetto di un rapporto politico ampio tra attori internazionali, e tra i meno rilevanti economicamente per via delle numerose restrizioni. La vendita di armamenti a Paesi come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto o altri non è il quid che determina la natura dei rapporti diplomatici con questi Paesi. Piuttosto, rappresenta una parte degli scambi mutualmente utili che dei Paesi in buone relazioni usano tenere. Il problema è quindi a monte: se reputiamo che i Paesi da cui provengono i supporter del terrorismo internazionale abbiano responsabilità gravi in questo, bisogna essere pronti a ridiscutere le nostre relazioni nel loro insieme e a rinunciare ai vantaggi che provengono da quella relazione (ad esempio: sicurezza della navigazione, risorse energetiche, capitali di investimento, flussi turistici, export di beni e servizi). Trovare alternative strategiche è spesso difficile in quanto i Paesi che potrebbero servire da alternativa per garantire ciò di cui si abbisogna non hanno caratteristiche diverse da quelle dei partner consolidati che si stanno rinnegando, con la difficoltà aggiuntiva di dover partire da zero. In questo il ruolo degli armamenti è importante solo in termini relativi. Quanto riguarda la compravendita di armamenti è la conseguenza di un determinato rapporto politico, non la causa. L’arma è uno strumento di dinamiche squisitamente politiche e che sul piano politico vanno discusse. La differenza tra le questioni di principio e la fattibilità reale è qui più evidente che mai. È semplice enumerare dei principi condivisibili, all’atto pratico la fenomenologia politica internazionale nella quale un mercato complesso come quello degli armamenti si incastona è davvero intricata, e ogni soluzione tende a essere molto tecnica e sofisticata, con la frustrazione che ne consegue da parte di chi vorrebbe capire e far sentire la propria opinione. La quale però risulta spesso poco circostanziata a causa del fattore complessità. Da questo punto di vista, speriamo di aver contribuito alla comprensione generale del tema.

Marco Giulio Barone
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Foto: PolandMFA

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Marco Giulio Barone
Marco Giulio Baronehttps://ilcaffegeopolitico.net

Marco Giulio Barone è analista politico-militare. Dopo la laurea in Scienze Internazionali conseguita all’Università di Torino, completa la formazione negli Stati Uniti presso l’Hudson Institute’s Centre for Political-Military analysis. A vario titolo, ha esperienze di studio e lavoro anche in Gran Bretagna, Belgio, Norvegia e Israele. Lavora attualmente come analista per conto di aziende estere e contribuisce alle riviste specializzate del gruppo editoriale tedesco Monch Publishing. Collabora con Il Caffè Geopolitico dal 2013, principalmente in qualità di analista e coordinatore editoriale.

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