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Rohingya: l’accordo di rimpatrio è un fallimento

In 3 sorsi – Circa 800mila Rohingya sostano al confine tra Myanmar e Bangladesh. Cacciati dalle Autorità birmane, accolti controvoglia dai bengalesi, i Rohingya vivono in campi profughi in precarie condizioni igieniche. I due Paesi hanno firmato un accordo di rimpatrio, ma per ora resta lettera morta.

1. “IMMIGRATI BENGALESI”

La Birmania, oggi Myanmar, è un insieme di etnie e culture diverse. I Bamar, buddhisti, sono circa i due terzi della popolazione e occupano molti posti chiave del Governo. Esistono poi otto minoranze riconosciute, ma molte altre non godono dei diritti civili e politici. Fra queste i Rohingya – circa due milioni di persone in un Paese di oltre cinquanta milioni – sono di religione musulmana, vivono nello Stato del Rakhine, al confine con il Bangladesh, e parlano una lingua vicina al bengali: un fatto che li ha portati ad essere considerati stranieri in patria, un gruppo di “immigrati bengalesi” che – nella volontà del Governo centrale – dovrebbero venire espulsi verso il supposto Paese d’origine. In realtà i Rohingya abitano l’area da diversi secoli, come riportato già nel Settecento dal geografo scozzese Francis Buchanan Hamilton.

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Fig. 1 – Aung San Suu Kyi, congliere di Stato del Myanmar, alla guida del Governo civile dal 2015

2. LA REPRESSIONE DEI MILITARI

Durante la Seconda Guerra Mondiale i britannici armarono i Rohingya in funzione anti-giapponese. Successivamente combatterono contro il nuovo Stato nazionale birmano per ottenere l’indipendenza. Nel 1962 un golpe portò al potere una giunta militare, che puntò a costruire l’identità nazionale birmana appoggiandosi all’etnia più numerosa, i Bamar. Molte minoranze etniche vennero quindi perseguitate dal Governo centrale. Nel 1982 la giunta militare tolse la cittadinanza ai Rohingya: non potevano possedere terre né spostarsi liberamente. Privati dei diritti elementari, vennero costretti a firmare un impegno a non procreare più di due figli per impedire la crescita della loro comunità. I Rohingya negli ultimi decenni hanno dato vita a numerose rivolte, ogni volta represse brutalmente dall’esercito. Nel 2015 il regime ha concesso nuove elezioni, vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia, guidata dal Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. Ma questo non ha migliorato affatto le condizioni di vita dei Rohingya: il Governo civile di Suu Kyi ha finito per utilizzare gli stessi metodi repressivi della giunta militare. Nel 2017 alcuni miliziani dell’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) hanno attaccato dei posti di di polizia governativi, causando una rappresaglia di massa da parte dei militari contrassegnata da stupri e massacri. Circa 800mila profughi Rohingya si sono riversati in Bangladesh, dove sono stati accolti in precari campi profughi.

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Fig. 2 – Un campo profughi Rohingya, al confine fra Bangladesh e Stato di Rakhine (Myanmar)

3. UN ACCORDO FALLIMENTARE

Due anni dopo la situazione è ancora in stallo. In Myanmar oltre mezzo milione di sfollati interni Rohingya vivono in condizioni precarie: Knut Otsby, coordinatore della missione umanitaria ONU, ha minacciato di ritirare il sostegno delle Nazioni Unite se il Governo birmano non troverà una soluzione definitiva. Ma Aung San Suu Kyi continua a negare l’esistenza di una pulizia etnica contro i Rohingya, e in un incontro con il premier ungherese Victor Orbàn ha parlato del fenomeno migratorio e della crescita della popolazione di religione musulmana come di problemi comuni a Europa e Sud-est asiatico. Nel novembre 2018, senza mediazione di ONG e ONU, i Governi birmano e bengalese hanno stretto un accordo di rimpatrio: il Bangladesh ha scelto 2.200 sfollati da riportare in Myanmar. I prescelti, appena avuta la notizia, sono fuggiti dal campo dandosi alla macchia: i Rohingya, memori delle violenze di massa perpetrate dall’Esercito birmano, non hanno alcuna intenzione di tornare nel Rakhine. La situazione è complicata: da un lato il Bangladesh ha dichiarato a più riprese di non volere i profughi, dall’altro il Myanmar non ha alcuna intenzione di accoglierli di nuovo entro i propri confini, e ha firmato l’accordo con il Governo bengalese consapevole dell’impossibilità di attuare i rimpatri. Per ora il trattato tra i due Paesi resta lettera morta e la tensione cresce: nel mezzo, intanto, la tragedia di un intero popolo.

Davide Longo

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Davide Longo
Davide Longo

Classe 1992. Nato e cresciuto in provincia di Varese, dopo gli studi classici mi sono laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Milano. Oggi studio lingua e cultura cinese all’Università dell’Insubria di Como e collaboro con varie testate giornalistiche. Scrivo di attualità e politica per il portale online The Vision e mi occupo di Polonia e Ungheria per East Journal. La Storia e l’attualità dell’Asia sono due delle mie più grandi passioni: mi occupo principalmente di minoranze nazionali in Cina e nel Sudest Asiatico e delle relazioni politiche ed economiche fra i Paesi dell’area.

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