Dopo l’attacco terroristico del 21 settembre al Westgate di Nairobi e il probabile coinvolgimento della britannica Samantha Lewthwaite, diviene fondamentale interrogarsi sulle conseguenze che l’aumento delle conversioni all’Islam di europei potrà avere a livello politico e sociale, abbandonando stereotipi e semplificazioni che hanno da sempre pregiudicato un’attenta analisi del fenomeno.
SAMANTHA LEWTHWAITE E I CONVERTITI EUROPEI OLTRE LA LEGGENDA – Le conversioni all’Islam di cittadini europei non sono facili da quantificare. Per l’Italia, l’imam e Presidente dell’UCOII (Unione delle comunitĂ islamiche d’Italia) Izzedin Elzir, riferisce di oltre 70mila convertiti. Comprensibilmente però, a far notizia non sono i cittadini incensurati che hanno intrapreso un autonomo percorso di fede che non li condurrĂ mai al terrorismo, bensì la minoranza di convertiti in via di radicalizzazione. La ventinovenne del Buckinghamshire Samantha Lewthwaite, vedova di uno degli attentatori suicidi che il 7 luglio 2005 causarono la morte di cinquantadue persone nella metropolitana londinese, è un esempio di quest’ultima componente. L’ipotesi di un suo coinvolgimento nell’attentato al Westgate di Nairobi non è ancora confermata, ma sulla Lewthwaite pende un mandato di cattura internazionale emesso dall’Interpol su richiesta delle autoritĂ keniote. La donna era ricercata in Kenya giĂ prima dell’attacco al Westgate per la partecipazione all’attentato del 25 giugno 2012 al Jerico Beer Garden della turistica Mombasa, che provocò tre morti e venticinque feriti. Ai tempi della strage di Londra la Lewthwaite aveva condannato gli attentati e si era dichiarata all’oscuro delle attivitĂ del marito, versione che non aveva mai convinto le AutoritĂ . Nel 2011 in Kenya sarebbe stata reclutata dai miliziani di al-Shabaab per poi risposarsi con uno di loro, Habib Saleh Ghani, nato a Hounslow, sobborgo multietnico di Londra, e morto lo scorso 12 settembre per un regolamento di conti interno al movimento. Poco altro si conosce della donna. Nelle ultime settimane infatti, i mass media sono stati impegnati soprattutto a creare una rappresentazione mitica di Samantha Lewthwaite, per la quale era giĂ stato creato il suggestivo soprannome di “Vedova Bianca”. PiĂą interessante è il fatto che dal 2004 a oggi oltre 200 persone sono state indagate in Europa per legami col terrorismo.
Percentuali della popolazione di fede musulmana nei Paesi europei. Una maggiore intensitĂ del verde indica una piĂą ampia presenza islamica
LO CHOC DELL’HOMEGROWN TERRORISM – Il terrorismo “cresciuto in casa”, definizione apparsa nel 2007 nel quadro del Violent Radicalization and Homegrown Terrorism Prevention Act statunitense, si configura come la preparazione e l’attuazione di atti terroristici condotte da cittadini ai danni del proprio Paese. Dopo l’uccisione di Osama Bin Laden e a seguito degli epocali sconvolgimenti in corso dall’inizio delle Primavere arabe a oggi, il terrorismo non è finito, si è evoluto. Se al-Qaida può definirsi superata, questo non rappresenta un vulnus di particolare portata per il terrorismo: era l’idea a dover sopravvivere, e probabilmente lo ha fatto. L’homegrown terrorism, favorito dall’atomizzazione e dal decentramento dell’attuale fase in cui si trova il terrorismo di matrice islamica, pone gli Stati di fronte a un doppio choc: quello emotivo, determinato dal fatto che sia un connazionale a metterlo in atto, e quello securitario, essendo il fenomeno di difficile monitoraggio, in quanto coinvolge individui con la libertĂ di movimento di qualsiasi altro cittadino. L’azione di terroristi europei potrebbe concentrarsi soprattutto nel web, definito dagli esperti il nuovo campo d’addestramento virtuale, attraverso cui attuare propaganda, fornire istruzioni sulla fabbricazione di armi e ordigni e aprire nuovi scenari come l’hacking terrorista, finalizzato a causare danni di varia entitĂ ai Paesi giudicati kafireen, “miscredenti”. Nel web i confini sono polverizzati, le lingue si moltiplicano e riviste come “Inspire“, diffusa da al-Qaida dal 2011, riescono a raggiungere, seppur illegalmente, un ampio bacino di utenza. Se la situazione per quello che è da molti definito “terrorismo 2.0” appare tanto prospera, ciò è dovuto a molteplici errori di valutazione attuati sia dagli Stati europei che dai convertiti stessi.
INTERCULTURALITĂ€: LE OCCASIONI MANCATE – Da parte degli Stati europei, oltre alla diffusa resistenza nei confronti di una realtĂ sempre piĂą interculturale e alla mancata lotta all’islamofobia, un grave errore è rappresentato dalla sconcertante miopia dei Governi nell’individuazione degli interlocutori all’interno delle comunitĂ musulmane in Europa.  Un esempio è fornito dall’Italia: nel nostro Paese l’unico dialogo a livello governativo avviene con i membri della COREIS (ComunitĂ Religiosa Islamica), avversata da un gran numero di musulmani in Italia e accusata di razzismo per la preponderanza italiana al suo interno, quando non di miscredenza, kufr, per dichiarazioni quali la non obbligatorietĂ dell’hijab, il codice islamico di abbigliamento femminile.  A prescindere da quanto possano essere graditi ai Governi europei alcuni modi di vivere l’Islam, qualora essi non costituiscano quelli maggioritari, cercare ulteriori interlocutori diventa un imperativo, pena l’inefficacia del dialogo interculturale. Altro caso di superficialitĂ nell’individuazione dell’interlocutore è stato la recente scelta francese di accettare cento milioni di dollari per la riqualificazione delle banlieue dal Qatar, sede dell’unica rappresentanza diplomatica dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, nome dato dai talebani al Paese tra il 1996 ed il 2001. A prescindere dagli allarmismi di chi crede che questo fondo servirĂ unicamente per la costruzione di centinaia di moschee guidate da individui sovversivi, ciò non costituisce un pericolo in sĂ©, ma il Qatar, come altri attori del Golfo e al di lĂ dei fronti sui quali è schierato nell’attuale scenario di crisi quali Siria ed Egitto, è da sempre poco amato da tanta parte dell’opinione pubblica, per esempio, degli Stati del Maghreb o dell’Egitto stesso, dai quali proviene la maggioranza degli abitanti delle periferie francesi. PerchĂ© non accogliere finanziamenti da piĂą Paesi musulmani, così da scongiurare il rischio di assoluta dominanza qatarina in sede di pianificazione degli interventi, coinvolgendo con forme diversificate di partnership anche gli Stati d’origine delle comunitĂ musulmane in Francia? Non si ha notizia di simili riflessioni. Sul versante opposto anche i convertiti rivelano atteggiamenti controproducenti. A detta di molti di loro, e ciò risulta chiaro in molte delle conversioni di detenuti, spesso ci si converte contro qualcosa, per frustrazione o per rancore contro lo Stato percepito come assente: in questi casi è una conversione giĂ in partenza connotata da rabbia e desiderio di rivalsa. Ulteriore ostacolo a un effettivo dialogo è il rifiuto di alcuni convertiti europei delle loro identitĂ multiple. Si teme l’ambiguitĂ , si ricerca il nitore dell’appartenenza esclusiva alla Umma, la comunitĂ musulmana. Se dunque mai come oggi il terrorismo è comunicazione prima che azione, nel quadro dei rapporti tra musulmani europei e Governi la situazione presenta ampi margini di miglioramento. Eppure le potenzialitĂ di crescita interculturale sono enormi. I musulmani europei dovrebbero fungere da ponte e dovrebbero essere apprezzati come tali: le culture in-between, secondo la definizione del celebre esperto di studi culturali e post-coloniali Homi K. Bahba, sono una risorsa, non un limite. Se gli attori in gioco non affronteranno diversamente questo delicato tema e se si continuerĂ ad affidarsi unicamente alla prevenzione del terrorismo attuata dall’intelligence – prevenzione che in fondo è giĂ quasi una cura, – è ipotizzabile un deterioramento inesorabile delle relazioni tra musulmani d’Europa e Stati europei, con conseguenze potenzialmente disastrose.
Sara Brzuszkiewicz