Miscela Strategica – L’ambiente è tradizionalmente considerato come oggetto di tutela, la cui integrità è assicurata alla luce dei principi di precauzione, prevenzione e responsabilitĂ . Esso è anche riconosciuto come un bene pubblico per la cui protezione si considera necessaria una pianificazione di interventi. Così, al pari di una serie di libertĂ positive che richiedono la messa in opera di azioni finalizzate a garantire l’effettiva soddisfazione di uno specifico interesse, la tutela dell’ambiente implica il riconoscimento di alcuni fattori imprescindibili necessari al pieno sviluppo della personalitĂ dell’individuo, come ad esempio, il diritto alla salute o all’integritĂ del territorio.L’ambiente però assume anche un’altra connotazione, essendo spesso in grado di intervenire nell’andamento dei rapporti di forza.
AMBIENTE E CONFLITTI – La sua relazione con il conflitto è stata oggetto di molti approfondimenti, fra cui figurano i contributi dell’UNEP (United Nations Environment Programme) che hanno piĂą volte evidenziato gli aspetti tipici di questo binomio. Di norma, questa relazione, procede e si sviluppa a seconda del nesso di causa-effetto che intercorre fra i due elementi. Da un lato, l’ambiente, concorrendo ad una situazione di insicurezza, rappresenta una delle cause di conflitto. Dall’altro, invece, può risentirne con immediate conseguenze. Nel rapporto “Protecting the Environment during armed conflict” (2009), l’UNEP descrive questo fenomeno e studiando un campione di situazioni post-conflittuali (in cui compaiono anche il Kosovo, la striscia di Gaza, il Sudan e l’Afganistan), dimostra che la guerra abbia normalmente un grave impatto sia sull’ambiente naturale che sulle comunitĂ locali la cui sopravvivenza è strettamente legata allo sfruttamento delle risorse presenti nel territorio.
LA DISCIPLINA DELL’AMBIENTE NELLO “IUS IN BELLO” – Rispetto al contesto normativo, l’interazione fra conflitti ed ambiente risiede in un gruppo organico di norme comunemente noto come “ius in bello” volto a regolare lo svolgimento delle attivitĂ durante il protrarsi del conflitto armato e figura negli strumenti convenzionali che hanno ad oggetto l’utilizzo degli armamenti. Ora, che il diritto possa regolare il corso di un conflitto o di una guerra potrebbe risultare una antinomia, tuttavia, è bene precisare che, di norma, la situazione conflittuale fra Stati non comporta l’interruzione del diritto internazionale ed in particolare di quel ramo del diritto teso a migliorare – laddove possibile – le condizioni delle popolazioni degli Stati belligeranti.
Con l’avvento delle Nazioni Unite e della relativa Carta istitutiva è stato posto un limite all’uso della forza armata, essendo consentito esclusivamente per far ricorso alla legittima difesa individuale e collettiva (da parte degli Stati) contro un’aggressione (art. 51) o mirata al mantenimento ed al ripristino della pace e della sicurezza internazionali mediante azioni individuali o collettive (secondo il Capo VIII della Carta ONU). Tuttavia, l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite non ha sminuito la rilevanza del diritto applicabile ai conflitti armati rispetto ai quali si è via via dimostrato necessario avere norme che limitassero gli effetti delle guerre sui civili, sui loro beni e, per estensione, sull’ambiente naturale.
A questo proposito, le norme relative alla condotta delle operazioni militari sono state poste dalle Convenzioni di Ginevra del 1949. Rispetto alla protezione dell’ambientale, risulta di particolare rilevanza il I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra (1977) dedicato ai conflitti armati internazionali. Quest’ultimo infatti considera le regole fondamentali dei metodi e dei mezzi di guerra specificando che il diritto dei belligeranti di scegliere mezzi e metodi per condurre un combattimento non sia illimitato, ma al contrario, rigorosamente confinato entro il divieto di utilizzare metodi e mezzi di combattimento capaci di causare mali o sofferenze superflui. Secondo il I Protocollo un’arma si definisce superflua quando arrechi danni non finalizzati al conseguimento dei vantaggi militari e dunque, non proporzionati a questi obiettivi. Pertanto, le Parti di un conflitto pur conservando la facoltà di scegliere come condurre le ostilità , non possono adoperare  mezzi che siano concepiti con lo scopo di provocare danni “estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale” (art.35) e si impegnano a non utilizzare una violenza maggiore rispetto a quella necessaria per sconfiggere il nemico (conformemente al principio di proporzionalità ). Il principio che salvaguardia la “necessità militare” dunque non interviene per giustificare un’azione che altrimenti sarebbe vietata, ma per definire un limite preciso ad una azione di guerra nella quale sia certamente indispensabile conseguire il vantaggio militare ricercato senza tuttavia impiegare una forza superiore o sproporzionata rispetto a quella necessaria.
Il I Protocollo specifica inoltre che le ostilitĂ debbano essere condotte evitando di compromettere la salute o la sopravvivenza della popolazione, postulando un fermo divieto rispetto agli attacchi contro l’ambiente naturale a titolo di rappresaglia o contro beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile. Analogamente, lo Statuto di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale (1998), considera un crimine di guerra un attacco che sia stato sferrato nella consapevolezza che possa provocare danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale.
AMBIENTE E STRATEGIE MILITARI – Così, se da un lato la ComunitĂ Internazionale si è interrogata sull’opportunitĂ di sviluppare un nucleo di principi comunemente condivisi, dall’altro, il mondo militare ha guardato con pragmatismo alle potenzialitĂ strategiche offerte dal predominio dei fattori ambientali con il fine di guadagnare posizioni di supremazia in vista del soddisfacimento di obiettivi di politica di potenza. Il fattore ambientale dunque si pone non piĂą soltanto come luogo o teatro di un conflitto, ma come elemento in grado di intervenire in esso, influendo sugli esiti delle posizioni militarmente acquisite. Emblematica, al riguardo, è la Convenzione del 1977 sul divieto degli utilizzi militari e di qualsiasi altro utilizzo ostile di tecniche di modificazione ambientale (1977, ENMOD, Convention on the Prohibition of Military or any other hostile use of Environmental Modification Techniques). Le possibilitĂ offerte da un utilizzo strumentale del “fattore ambientale” per confinare il nemico in un terreno sfavorevole è un’antica strategia di combattimento nota sin dal Medioevo. In tempi piĂą recenti,  si ricordano ad esempio, le strategie messe in atto negli anni ’30 durante il conflitto sino-giapponese in occasione del quale i cinesi distrussero gli argini del fiume Huang con l’intento di creare un’alluvione per impedire l’invasione nemica.  Anni piĂą tardi, nel corso della Guerra Fredda, malgrado gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica fossero parte della Convenzione ENMOD, si è documentato che gli scienziati stessero prendendo in considerazione la possibilitĂ di indurre delle alterazioni ambientali valutando la biodiversitĂ come “conservazione della varietĂ delle specie” in caso di conflitti piĂą ampi e generalizzati.   La definizione di “tecniche di modificazione ambientale” offerta dalla Convenzione indica qualsiasi operazione avente lo scopo di modificare – grazie ad una manipolazione deliberata di processi naturali – la dinamica, la composizione o la struttura della Terra, compresi i suoi bioti, la sua litosfera, la sua idrosfera, la sua idrosfera e la sua atmosfera, oppure lo spazio extra-atmosferico. Tuttavia, affinchĂ© la Convenzione sia applicabile è necessario che la tecnica di modificazione in questione causi un danno o un pregiudizio ad uno degli Stati contraenti, escludendo pertanto la natura erga omnes delle sue disposizioni.
Inoltre, benché rappresenti ancora una delle codificazioni più rilevanti in relazione al binomio ambiente-conflitti, la Convenzione presenta la criticità di escludere i metodi di guerra convenzionali che comportano come conseguenza un deterioramento ambientale. Il caso più eclatante è relativo alla I Guerra del Golfo, durante la quale sono stati versati in mare ingenti quantità di petrolio. La dottrina che si è occupata dell’argomento ha teso ad escludere il campo di applicazione in considerazione del fatto che l’Iraq, pur essendo Parte della Convenzione, non ha provveduto a ratificarla e comunque, è stato concluso che il sabotaggio delle installazioni petrolifere non rientrerebbe all’interno della definizione di “manipolazione di processi naturali” essendo il processo di sfruttamento del greggio un’attività prevalentemente gestita dall’uomo.
Emanuela Sardellitti