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Lo stato della democrazia in Africa – II

Seconda puntata del nostro documento. Dopo aver esaminato il contesto generale e il quadro storico, entriamo nello specifico su alcune problematiche, che partono dalla ricerca di un “uomo forte”: oltre alla difficoltà dell'alternanza e della condivisione della leadership, che porta a un potere assoluto e a rielezioni pressochè infinite, guardiamo ai fattori etnici, assolutamente determinanti, senza dimenticare il ruolo delle ex-potenze coloniali, spesso tutt'altro che positivo

Se – come visto nella prima parte dell'analisi – la ricerca dell’uomo forte, del capo supremo è connaturata alla psicologia africana, questa caratteristica ha una serie d’inconvenienti per l’affermazione d’una democrazia piena nel continente.

IL POTERE NON SI CONDIVIDE – In primo luogo, alimenta il concetto che il potere appartiene ad uno solo, e che non è trasferibile: da qui l’ossessione di molti presidenti africani per perpetuarsi nel potere, sino alla morte. D’altra parte, la fissazione dei presidenti africani con il loro potere assoluto, senza limiti, vanifica il concetto di divisione di poteri, fondamentale per il funzionamento d’una democrazia. Governi, giudiziario, stampa, tutto deve essere sottomesso alla volontà e controllo del leader, che con il tempo tende ad isolarsi sempre più nel suo palazzo, circondato da sicofanti.

Molte costituzioni africane, ad esempio nell’Africa francofona, sono modellate su quella della V Repubblica francese, ma non portano affatto agli stessi risultati, rimanendo spesso lettera morta quando applicate in un contesto africano.

L’ALTERNANZA DIFFICILE – Se il potere appartiene per sempre ad un uomo forte, l’alternanza per via delle urne non è vista come un cammino possibile, ma in fondo neanche sempre desiderabile. Spesso in Africa s’apprezza di più la forza di chi ha vinto una guerra che quella di chi saputo vincere delle elezioni: pensiamo alla caduta di Mobutu dopo anni di potere in Zaire. Non portò al potere l’eterno oppositore Tsikehedi, ma Laurent Desirè Kabila, signore della guerra. Allo stesso modo, si può considerare la forza che all’angolano Dos Santos derivò dall’essere il vincitore della guerra civile che l’oppose per anni all’Unita di Savimbi: gli accordi successivi alle prime elezioni tra MPLA e UNITA non poterono mai funzionare, perchè una vicepresidenza come quella concessa allo sconfitto Savimbi non è nulla in Africa. E ancora, la legittimità eterna che la vittoria bellica concede a leader peraltro anche con caratteristiche positive come Kagamé in Rwanda o Museveni in Uganda.

IL FATTORE ETNICO – Altra anomalia derivante dal potere assoluto nella persona del leader è la natura etnica del consenso politico. Salvo poche eccezioni, i partiti africani sono organizzati, al di là dei loro nomi, non secondo linee ideologiche o programmatiche ma secondo divisioni etniche, perfettamente conosciute ai votanti, che tendono a scegliere il partito della loro etnia o tribù, non il partito di cui preferiscono le idee.

La democrazia funziona male in caso gli elettori pensino in questo modo: perchè il dibattito fra idee contrapposte non avviene mai, e le campagne elettorali africane ne sono prive. Questo non alimenta un humus, fondamentale in democrazia, di dibattiti o proposte alternative. Prevalgono invece messaggi d’appartenenza etnica e spesso fautori di divisione.

Male hanno fatto le internazionali politiche ad accettare nel loro seno partiti africani basandosi solo su denominazioni prive di significato o testi di statuti del tutto disattesi nella pratica. Questo le ha trascinate ad appoggiare candidati e partiti che tali appoggi internazionali non meritavano affatto (vedi il caso recente di Gbagbo in Costa d’Avorio).

In molti casi, la politica africana è quindi etnica e personalista. La gestione del potere segue poi gli stessi parametri:

_ sovrarappresentazione dell’etnia al potere nei governi, uffici pubblici ed esercito;

_ discriminazione delle altre etnie, in totale disprezzo alla cultura del merito e della competenza;

_ conseguente cattivo funzionamento della pubblica amministrazione e sviluppo d’una cultura patrimonialista e di politiche economiche e infrastrutturali non legate a piani coerenti di sviluppo ma alla distribuzione sul territorio delle differenti etnie.

Questo è particolarmente vero in grandi Paesi, nati a seguito della sparizione degli imperi coloniali ma poco coesi sul piano interno (Nigeria, Camerun, RD Congo) ma anche nei paesi del Golfo di Guinea, dove generalmente esiste una divisione storica di fondo tra etnie della costa (commercianti) e etnie dell’interno (di ascendenza guerriera e economicamente legate all’allevamento e all’agricoltura).

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IL POTERE ASSOLUTO – Se quindi il potere assoluto è gestito come tale, poco cambia che sia fondato in elezioni o in un conflitto. Una volta che lo si ottiene, non lo si lascia. Essere oppositore in Africa è mestiere ingrato, privo di spazi, ruoli chiari e prospettive di diventare un giorno governante, a meno che non si diano condizioni particolari. Difficilmente si ottengono grandi appoggi, salvo quelli della propria etnia e semmai di qualcun’altra anch’essa emarginata, ma che ambirà piuttosto a gestire essa il potere tramite un suo rappresentante appena possibile.

RIELEZIONI INDEFINITE – Dal canto loro, i presidenti da tempo al potere, ora eletti, hanno progressivamente eliminato regole costituzionali che li rendevano non rieleggibili o rieleggibili solo una volta. Uno dopo l’altro, vari presidenti hanno ottenuto riforme costituzionali, avallate da poteri non indipendenti a loro soggetti, che hanno trasformato le loro presidenze in monarchie costituzionali. Come monarchie di fatto nonostante la parvenza repubblicana, un’altra tendenza in corso in Africa è quella della successione, alla morte del capo, solo da parte di suo figlio, la cui legittimità può essere o no elettorale, ma è fondamentalmente di sangue. Togo (prima di fatto, e successivamente con elezioni), Gabon (mediante elezioni sospette), RD Congo i casi più recenti. Quest’ultimo fu il caso più sorprendente, dato che Joseph Kabila, figlio di Laurent Desiré, era praticamente sconosciuto fino all’assassinio del padre, ed imposto dall’esercito come successore. Nel 2006, dopo qualche anno al potere, vinse delle elezioni (le prime nella storia del Paese) ed ora le regole sono state modificate in maniera da assicurarne la rielezione nel 2011.

IL PATERNALISMO COLONIALE – Le ex–potenze coloniali hanno spesso mantenuto politiche poco positive in Africa, sostenendo con frequenza, in nome della realpolitik, uomini forti che poco meritavano tali appoggi, in spregio del loro malgoverno e delle loro dubbiose (o inesistenti) credenziali democratiche, che del resto poco importavano almeno sino agli anni Novanta.

Troppo spesso gli ex–dittatori si sono trasformati in presidenti eletti in esercizi elettorali che solo a fine anni Novanta sono stati sottoposti a serie osservazioni internazionali (che devono essere credibili e di lungo periodo, non limitarsi a turismo elettorale nella settimana del voto). La politica di cooperazione allo sviluppo, pur necessaria per accompagnare il processo di consolidamento di paesi fragili, troppo spesso è stata ostaggio di malgoverno e corruzione che non erano ignorate ma non sufficientemente combattuti.

(2. continua. Rileggi qui la prima parte del focus)

Stefano Gatto [email protected]

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