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Uniti per combattere il separatismo (1)

Prima parte – Pechino e Bangkok devono fronteggiare due problemi simili: nelle regioni periferiche di Cina e Thailandia, rispettivamente in Xinijang e in Pattani, le minoranze etnico-religiose minacciano di scatenare una guerra civile. In questo articolo, che pubblichiamo in due puntate, vi spieghiamo la strategia che i due Paesi asiatici stanno adottando per sedare le spinte centrifughe: puntare sullo sviluppo economico e infrastrutturale per conservare due territori assolutamente strategici

 

XINJIANG E PATTANI – All’indomani dell’apertura nello Xinjiang della più grande Fiera internazionale d’oriente, l’Expo Cina-Eurasia inaugurato il 1 settembre dal Vice-Premier cinese Li Keqiang, Radio Free Asia segnala l’avvenuta estradizione in Cina ad opera del governo Thailandese di Nur Muhemmed, uiguro emigrato illegalmente a Bangkok per sfuggire alle persecuzioni religiose subite in Cina e coinvolto secondo le fonti di Pechino nelle sanguinarie rivolte di Urumqi del 2009.

Più di un milione di uiguri vivono nei Paesi dell’Asia centrale e sud-orientale ed estradare quanti di loro sono attivisti, rifugiati, dissidenti, oppositori politici è divenuta una prassi ordinaria dall’11 settembre 2001 ad oggi.

La cooperazione per la sicurezza regionale, sia a livello multilaterale che bilaterale, si realizza anche attraverso le pratiche di estradizione di dissidenti e separatisti musulmani, siano essi ribelli del Pattani thailandese o separatisti dello Xinjiang cinese. Una nuova simmetria di intenti consolida le relazioni sino-thailandesi: per assicurarsi lo sviluppo economico e la supremazia nella regione occorre neutralizzare il nemico interno che attenta all’integrità nazionale; arginare ogni possibile supporto esterno ideologico, finanziario e logistico alla causa del Turchestan orientale e del Sultanato del Pattani; controllare i movimenti delle minoranze musulmane anche oltre frontiera.

Annichilire le spinte centrifughe e il separatismo per affermare l’unità dello stato-nazione: su questo imperativo sembra sostanziarsi il pragmatismo politico di Pechino e la prassi governativa di Bangkok.

 

LA “FRONTIERA INTERNA” DEL TERRORE – Thailandia, 14 luglio 2011. A pochi giorni dalle elezioni generali thailandesi che hanno decretato la vittoria di Yingluck Shinawatra, uno degli obiettivi prioritari per la rinascita del Paese, la “riconciliazione nazionale”, è stato sfidato da una nuova ondata di violenze nell’estremo sud della Thailandia.

Una famiglia di buddhisti è stata massacrata dai ribelli musulmani del Pattani, una delle tre regioni a maggioranza musulmana della Thailandia (le altre due sono Yala e Narathiwat). Fin troppo semplice ridurre allo scontro interreligioso l’analisi di questo conflitto che tormenta da decine di anni il Paese, le radici di quella che in molti hanno definito una “guerra civile” si riscontrano piuttosto nella dimensione politica e sociale. E il recente annuncio dei guerriglieri musulmani, “non smetteremo mai il massacro di infedeli del Siam finchè la terra di Pattani non diventerà uno stato islamico”, ha lo spirito della rivalsa politica, del revanscismo nazionalista malay e dell’intento separatista.

Cina, 22 luglio 2011. Con un comunicato ufficiale il World Uyghur Congress, l’organizzazione mondiale di esuli uiguri con sede a Monaco di Baviera, conferma la “condanna inequivocabile di ogni atto di violenza” e sollecita la comunità internazionale a riferirsi “con estremo scetticismo e cautela” alle informazioni propagandate dagli organi di stampa governativi cinesi. Due giorni prima, nella cittadina di Hotan, nello Xinjiang, durante uno scontro a fuoco tra polizia e manifestanti, erano rimasti uccisi 20 uiguri. Secondo le fonti ufficiali di Pechino, i facinorosi erano stati “bloccati” mentre intentavano un attacco terroristico alla caserma della polizia. Secondo i testimoni uiguri, i 20 morti sono il prodotto della violenta repressione perpetrata su alcuni dimostranti, che si erano riuniti per ottenere informazioni sui parenti tenuti in custodia dalla polizia. Il bilancio è gravoso: 14 “pestati a morte”, 6 colpiti dalle pallottole, 12 feriti gravi, 70 arrestati. Tra i feriti gravi ricoverati nell’ospedale della città c’è anche Hanzohre, una bambina di 11 anni.

La “nuova frontiera” del terrore per Pechino e Bangkok è interna, alimentata dalle richieste di autodeterminazione dei musulmani uiguri dello Xinjiang e malay del Pattani.

 

OLTRE LA FRONTIERA: XINJIANG, NECESSARIO AVAMPOSTO STRATEGICO – È l’antica “Terra dei Turchi”, la regione in cui le acque dei fiumi Yarkand e Aksu si legano originando il fiume Tarim e le migliaia di chilometri di pitture murali delle Grotte dei Mille Buddha di Bezelik si estendono lungo il profilo settentrionale del Muzat.

Il valore geo-strategico e geo-politico della regione è un portato della storia delle relazioni tra i tre maggiori potentati asiatici del XVI secolo: i Russi che conquistarono il khanato di Siberia ponendo le basi per una espansione ad oriente; i Zungari che riunirono le tribù mongole dell’ovest sotto il proprio dominio; i Manciù che a partire dal 1644, anno di conquista di Pechino, conquistarono tutta la Cina.

Già nel 1884 quando lo Xinjiang, la più irrequieta regione di confine oltre la Grande Muraglia, divenne formalmente una provincia dell’impero, al progetto di integrazione effettiva dell’area nel contesto nazionale unitario sono seguiti forzosi programmi politici e sociali tesi allo sviluppo economico e alla salvaguardia del confine territoriale.

L’antico motto “se lo Xinjiang è perduto, la Mongolia è indifendibile e Pechino è vulnerabile” riflette tutt’oggi la sostanziale rilevanza strategica di quella frontiera territoriale e della sua collocazione geo-spaziale, in previsione della stabilità interna e della crescita dell’influenza cinese in Asia centrale. Lo Xinjiang è  un confine territoriale, una zona di difesa dalle aggressioni esterne provenienti da occidente e nel contempo è un insostituibile corridoio terrestre di accesso allo scacchiere centrasiatico, quindi al più grande bacino di risorse energetiche del continente (21% delle riserve di petrolio mondiali e il 45% delle riserve di gas naturale mondiali), al quale la Cina può accedere più agevolmente grazie alla costruzione di numerosi oleodotti e gasdotti che attraversano la regione.

Proteso verso l’Eurasia e il Medio Oriente, lo Xinjiang consente di accedere al mercato europeo per via terrestre, ripercorrendo le antiche vie della seta, o per via marittima grazie alla Karakoram Highway che in 616 km consente di raggiungere la regione di Gilgit-Baltistan in Pakistan e da lì Gwadar, il porto sul Mar Arabico.

 

PUGNO DI FERRO IN GUANTO DI VELLUTO: “BUKE FENLI” – Oggi come in passato, alle spinte autonomistiche e centrifughe delle comunità autoctone Pechino ribatte con la durezza del pugno di ferro in guanto di velluto. Nessuna speranza per gli uiguri che reclamano l’autogoverno del Turchestan orientale, questo è quanto stabilito nell’articolo 4 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, che così recita: “Tutte le località ad autonomia etnica sono parti della Rpc che non possono secedere (buke fenli)”.

Per salvaguardare i confini territoriali e mantenere il controllo sulle risorse regionali la Cina ha operato su due diversi piani. Per primo, Pechino ha rafforzato la percezione collettiva di appartenenza allo stato-nazione, attraverso il consolidamento dell’unità nazionale e il potenziamento della forza attrattiva del proprio modello di sviluppo economico. Poi, ha incentivato la migrazione di milioni di cinesi Han dalle sovrappopolate città delle province orientali e sud-orientali  (le più industrializzate del Paese) verso lo Xinjiang. In questo modo le autorità governative hanno sovvertito le naturali proporzioni numeriche esistenti nella composizione etnica della popolazione della Regione Autonoma, per superare quantitativamente il gruppo etnico maggioritario (gli uiguri) e rendere “legittima” la mono-gerenza del potere politico, economico e militare degli Han, la nuova maggioranza. Si è così avviata la costruzione della Zhongguo Hua ma, come sostenuto dal Prof. D. Gladney in Dislocating China: Muslims, Minorities and Other Subaltern Subjects (Hong Kong 2004), la “nazionalizzazione cinese” è stata rimpiazzata dalla hanificazione della regione.

 

LOTTA AI TRE MALI E SVILUPPO ECONOMICO – L’11 settembre 2001 e l’avvio della lotta ad Al Qaeda e al terrorismo transnazionale di matrice islamica hanno ingenerato da una parte l’inasprimento della Strike Hard Campaign, la “lotta ai tre mali” (terrorismo, separatismo ed estremismo) iniziata già nel 1996,  dall’altra la recrudescenza del confronto interetnico che ha fatto precipitare le relazioni tra la minoranza musulmana uigura e la maggioranza Han.

Il Dragone sa che per vincere questo braccio di ferro con gli uiguri occorre puntare sullo sviluppo economico della Regione Autonoma e incalzare l’industrializzazione per diffondere il benessere e ottenere il consenso. E gli esiti effettivi di questo piano di sviluppo non si sono fatti attendere e vengono dichiarati in un rapporto ufficiale diffuso dopo un mese e mezzo dalla rivolta uigura del luglio 2009 in cui morirono 200 persone.

Nel Development and Progress in Xinjiang si trova conferma dell’ottimizzazione graduale della struttura economica regionale: la crescita media annua regionale si attesta al +10,6 % rispetto al 2000; il sistema infrastrutturale è stato rinforzato con la costruzione di più di 66 autostrade interprovinciali; la capacità produttiva agricola è cresciuta grazie all’industrializzazione della produzione; lo sviluppo nello sfruttamento delle risorse minerali è stato incentivato dagli investimenti statali per l’estrazione del petrolio, del carbone e del gas.

Anche la scelta del governo cinese di situare l’Expo ad Urumqi, la città più lontana dalla costa al mondo, nel mezzo del cosiddetto “polo eurasiatico dell’inaccessibilità”, stretta tra dune sabbiose e aspri altipiani, non è stata casuale e risponde ad un preciso orientamento strategico: trasformare la città in una testa di ponte per l’Asia centrale, assicurarne lo sviluppo economico ed accentrare gli interessi finanziari regionali per sostenere la crescita dell’intera nazione.

 

Dolores Cabras

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