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Potenza di pace (2)

Proseguiamo la nostra analisi delle missioni di pace a cui ha partecipato l’Italia negli ultimi anni, dedicandoci in particolare agli interventi che vedono le nostre Forze Armate protagoniste in Afghanistan e in Libano, attraverso la missione UNIFIL-2. Tale strumento militare, la cui efficacia non può essere negata nonostante esistano diverse problematiche, costituisce una caratteristica fondante della politica estera nazionale. Non è un caso se i nostri soldati sono apprezzati dalle popolazioni coinvolte e contribuiscono a fornire un’immagine positiva del nostro Paese all’estero

 

(Seconda parte) UN BILANCIO DI QUESTI DIECI ANNI – Nonostante il costante riconoscimento estero del nostro impegno militare in Afghanistan, come in Libano (sembrerebbe quasi che i nostri soldati siano i soli in grado di procacciarci un po’ di complimenti fuori dai confini domestici), è tuttavia chiaro che il bilancio decennale del nostro coinvolgimento in questa missione sconti il fallimento – oggettivo, palese e drammatico – delle piĂą generali strategie NATO susseguitesi in questi 10 anni. La sostanziale incapacitĂ  nel favorire la transizione nel controllo della sicurezza da ISAF alle forze armate afghane, l’inadeguatezza del cosiddetto “comprehensive approach” (che, nella pretesa di coniugare aspetti politici, economici e militari trova in realtĂ  molti ostacoli nel conciliare le tre sfere) la mancata realizzazione di un sistema politico-istituzionale locale e, negli ultimi mesi, il moltiplicarsi di attentati contro i contingenti stranieri non solo ci offrono un quadro negativo dell’operato di ISAF ma sanciscono il fallimento piĂą profondo della dottrina che ha ispirato la missione “Enduring Freedom” e delle modalitĂ  con cui essa è stata condotta: da una parte, infatti, ci troviamo ricondotti nel solco del navigato dibattito sulla democrazia come bene “esportabile” e dall’altra, ancor piĂą gravemente, siamo inevitabilmente posti di fronti alla crisi della “missione di pace”. Se osserviamo, infatti, la casistica delle missioni militari negli ultimi vent’anni, ogni dispiegamento di truppe all’estero ha dato forma normativa a quella che all’inizio si proponeva solo come un’anomala e inedita dimensione dell’intervento militare (in cui, cioè, la presenza sul territorio di contingenti stranieri non era ufficialmente legata alla tradizionale vocazione militare – quella dell’uso della forza a scopo offensivo o difensivo – ma all’obiettivo di ripristinare o preservare la stabilitĂ  di una determinata zona geografica). La “routinizzazione” di questo tipo di missioni, tuttavia, mentre ha riformulato concettualmente la “sicurezza” come “bene comune” la cui assicurazione dipende unicamente dal suo fornitore occidentale, l’ha contemporaneamente eletta a prodotto esclusivo dei sistemi politici democratici. L’unico modo per rendere sicuro un luogo sarebbe, dunque, farlo diventare – anche con la forza – democratico. Proprio l’esperienza afghana ha fatto perdere troppo palesemente appeal a tale dottrina per doverci spendere ancora parole mentre la riflessione che si imporrĂ  dopo l’agognato quanto controverso ritiro dall’Afghanistan (per ora prevista per il 2014), dovrĂ  doverosamente vertere sui limiti dell’ibridazione tra la figura del soldato e quella dell’operatore di pace o del “democratizzatore”.

 

L’ (IN)SUCCESSO DI UNIFIL-2 – Un caso certamente molto piĂą positivo dell’esperienza afghana, seppur ricco di controversie, è la cosiddetta Unifil-2 (United Nations Interim Force in Lebanon), missione in cui l’Italia ha svolto e continua a svolgere un ruolo di primo piano, ricevendo anche l’incarico del comando dell’intera missione dal 2007 al 2010. Inaugurata nel 2006 nel sud del Libano, subito dopo il ritiro delle forze israeliane dal territorio libanese che sanciva la fine della guerra tra lo stato ebraico e l’Hezbollah, gruppo militante sciita e partito politico libanese, Unifil-2 è una missione condotta sotto l’egida dell’ONU, in continuitĂ  con la missione “madre” Unifil-1, attivata giĂ  nel 1978, a tre anni dall’inizio della guerra civile libanese (1975-1990). I caschi blu della prima missione, dispiegati nello stesso triangolo del Libano meridionale in cui anche Unifil-2 opera, avevano il compito di proteggere le popolazione di questa parte del paese, che per la strategica posizione di confine con Israele, è sempre stata e continua ad essere particolarmente sensibile alle crisi interne e inter-statali. Nel 2006 il quadro desolante dato dalla distruzione delle infrastrutture, dall’emergenza alimentare, sanitaria e umanitaria che le incursioni israeliane avevano causato nei villaggi al di sotto del fiume Litani, spinse il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a decretare il rinnovo della missione Unifil, il cui mandato fu ovviamente rimodellato rispetto alla missione precedente. Unifil-2 fu così “benedetta” dalla risoluzione 1701, con l’obiettivo di stabilizzare il confine con Israele (tuttora definito solo parzialmente dalla cosiddetta “Linea Blu”, una fascia di frontiera sulla cui delimitazione i due stati hanno trovato solo parzialmente un accordo), di depurare la zona da armi illegali e restituire piena sovranitĂ  allo stato libanese, attraverso un passaggio graduale del controllo dell’area dai caschi blu alle LAF (Lebanese Armed Forces). Quest’ultimo punto, nel momento iniziale della missione, rappresentava ovviamente la fase finale della missione, che mirava prima di tutto a garantire l’effettivo e totale “cessate il fuoco” oltre al completamento del ritiro totale delle truppe israeliane dal territorio libanese. PiĂą volte oggetto di severe critiche per la presunta inefficienza delle forze internazionali nel controllare le armi che Hezbollah sembrerebbe detenere proprio in questa zona del paese (critiche spesso influenzate da insinuazioni della stampa israeliana su una presunta connivenza dei contingenti Unifil) e nel portare a compimento il trasferimento delle competenze alle LAF, la Missione Unifil-2 non è mai stata considerata una missione di successo. Il duro e forse ingeneroso giudizio che pende su questa missione, condiviso da gran parte degli opinionisti italiani, non tiene, tuttavia, conto di come l’impegno civile dei caschi blu nella gestione della ricostruzione e nella pacificazione dell’area abbia cambiato il volto di centinaia di villaggi, che dopo il ritiro di Israele si trovavano in uno stato di precarietĂ  assoluto. Diversamente dal caso afghano la maggior parte della popolazione del Libano meridionale ritiene che i militari debbano restare lì, in questo momento di crisi regionale piĂą che mai; alcuni dei cittadini piĂą anziani ricordano ancora positivamente il comandante italiano Graziano che, sotto Unifil 1, è stato l’undicesimo militare a  guidare la missione. E’ un dato forse secondario rispetto al computo effettivo dei risultati ma la domanda che ci si può e, forse, ci si deve porre è piuttosto se il dispiegamento di truppe nel sud del Libano, seppur non in grado di dare impulso ad una rapida ed efficace transizione politica, non sia stato comunque fondamentale nell’arginare un tracollo di gran lunga peggiore rispetto all’attuale status quo, perennemente precario ma pur tuttavia pacifico.

 

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CONSIDERAZIONI FINALI – Dall’altro lato, certamente, il caso Unifil, parallelamente al caso afghano, ci dice che lo strumento militare non è sufficientemente capace di portare stabilitĂ  mentre i processi di democratizzazione e di rafforzamento della sicurezza devono gioco forza dipendere prioritariamente dal mutamento istituzionale. Questo rappresenta ovviamente un problema endogeno alle due missioni, per cui, ovviamente, un paese come l’Italia riceve i dividendi di una performance scollata dagli obiettivi per il fatto stesso di essere uno degli attori chiave della missione stessa. C’è un fattore, tuttavia, che rischia, nel caso afghano, di incrementare il disastro che la presenza dei contingenti su quel territorio ha prodotto alle popolazioni locali e, nel caso libanese, di favorire l’aggravarsi della situazione politica in un momento in cui le tensioni tra gli attori interni e i vicini regionali si sta surriscaldando: i drammatici deficit di bilancio delle economie occidentali, a partire da quella americana, potrebbero, infatti, indurre gli stati alla rinuncia dell’ambizione di rendere sicure aree a rischio, con la conseguenza che per dar respiro alle finanze pubbliche, si metta in atto un ritiro repentino. Con tutti i rischi che comporta lasciare un lavoro a metĂ .  Nel caso italiano questo è particolarmente indicativo ma anche particolarmente ricco di conseguenze: una delle prime proposte lanciate inizialmente dalla Lega Nord e poi rilanciate dal governo, nel luglio 2011, è stata il ritiro delle truppe dalle missioni internazionali proprio mentre l’ONU chiedeva all’Italia di assumere nuovamente il controllo della missione. Il tornaconto di una proposta che facilmente attira consenso nell’opinione pubblica non deve, tuttavia, farci dimenticare che, mentre la curva degli spread sembra marcare il tracollo della nostra economia e della nostra fiducia internazionale, il rimedio dell’isolazionismo, per una media potenza come l’Italia, potrebbe comportare un declassamento nel panorama degli attori globali significativamente piĂą incisivo di quello di stati vicini e lontani molto piĂą forti, divaricando così lo scarto di “potenza”, che in un sistema internazionale ogni giorno piĂą competitivo, sarebbe sempre piĂą difficile da recuperare.

 

Marina Calculli

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