Alla fine Dilma Rousseff ce l’ha fatta a essere riconfermata Presidente del Brasile, facendo però molta più fatica del previsto. Il segnale ricevuto dagli elettori è che serve un cambio deciso di rotta, per rilanciare il Paese sia nell’economia, sia a livello di uguaglianza sociale.
UN ESITO NON SCONTATO – Dilma ha vinto: viva Dilma… o meglio, viva Lula. Eh sì, perché sia alla fine del primo, che del cruciale secondo turno, gli interventi dell’ex Presidente sono stati decisivi nei minuti di recupero ai fini della vittoria del PT (Partido dos Trabalhadores). L‘ultimo confronto televisivo tra Rousseff e Aécio Neves, il leader storico dei social democratici “di destra”, era stato vinto nettamente da quest’ultimo. Personaggio di spicco con una famiglia importante alle spalle (il nonno, Tancredo Neves, fu eletto Presidente del Brasile nel 1985), capace con il suo fascino di accalappiare parecchi voti anche nelle favelas, attingendoli soprattutto dai malumori dell’elettorato femminile. Complice il profilo abbastanza piatto del programma politico e sociale, Dilma ha rischiato seriamente di essere sconfitta.
LE DIFFICOLTÀ CON LA CLASSE MEDIA – Riconfermata per circa tre milioni di voti (51% contro più del 49%), quattro anni fa vinse senza problemi, oltrepassando il 56%. E, a detta degli analisti, questi due punti di percentuale scarsi, ma decisivi, provengono in prevalenza dalla classe media che, a giugno 2013, durante la Confederations Cup, trovò il coraggio di scendere in piazza insieme agli excluìdos (gli esclusi, i reietti: neri, meticci o bianchi poveri che siano) e gridare con loro «basta» a politiche economiche che non sono state in grado di garantire welfare pubblico di qualità (scuole e ospedali mal funzionanti e sovraffollati) a favore di una sanità e un’istruzione estesamente in mani private, accessibili solo all’elettorato storico PSDB. Una classe media indebitata fino all’osso e la working class senza più potere d’acquisto, per via di salari inadeguati, hanno portato alla contrazione dei consumi e a una stagnazione simile a quella del governo Cardoso, che, sebbene avesse aperto uno squarcio di luce dopo il buio della dittatura, diede inizio a quelle privatizzazioni con le quali Lula prima, e poi la Presidente in carica, dovettero convivere. Luis Inácio Lula da Silva, personalità indubbiamente eccezionale, aveva lasciato un Paese ormai leader nell’America latina: affrancata dall’influenza statunitense, indipendente dal punto di vista energetico, e in grado di supportare, insieme al Venezuela, gli anelli più deboli della regione. Un patrimonio che negli ultimi quattro anni sembra essersi indebolito. Le riforme sociali, che hanno viaggiato parallele con l’imprenditoria privata nei tempi d’oro dei due mandati di Lula, non sono evolute nell’emancipazione economica dei trabalhadores, i quali campeggiano nel logo del partito, ma non all’interno della realtà brasiliana. I tre milioni che hanno dato una nuova chance al PT avevano anche un conto in sospeso con i social-democratici. Il volto “umano” che Aécio si è sforzato di assumere non ha fatto loro dimenticare l’altra faccia della medaglia: Geraldo Alckmin, governatore dello Stato di São Paulo, il quale a giugno ha cercato di reprimere la rivolta lasciando mano libera a quella Policia Militar che in Brasile si macchia continuamente di nefandezze e di omicidi efferati, soprattutto ai danni degli afro brasiliani delle favelas. Pur vincendo nella città più grande e più ricca del Brasile, la vecchia strategia del bad cop, good cop non è riuscita al PSDB su scala nazionale, anche se stavolta ha sfiorato il colpaccio.
SERVE UN CAMBIO DI ROTTA – Il pericolo scampato deve servire però da monito per Lula & Co. Le correzioni dovrebbero essere sia politiche che etiche. Cominciando a estirpare un sentimento di razzismo che è ancora profondamente radicato nella società brasiliana e che si respira a pieni polmoni in megalopoli come Salvador da Bahia, dove, a fronte di quasi quattro milioni di pretos e pardos (neri e mestiços) che vivono a livello di Africa sub-sahariana, ci sono solo 500mila brancos (bianchi), con grandi diseguaglianze economiche e sociali. Un razzismo che va a braccetto con classi sigillate, impermeabili a ricambi sociali.
Basta gustarsi qualcuna delle telenovelas, un genere che non a caso il Brasile ha inventato, per accorgersi di questo disagio, a causa del quale il sospirato happy ending non arriva mai. Riuscirà Dilma Rousseff a rilanciare l’economia e la società brasiliana?
Flavio Bacchetta
Una versione simile di questo articolo è stata pubblicata anche sul blog de Il Fatto Quotidiano.
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Un chicco in più
Risultati e analisi completa delle elezioni brasiliane sono disponibili a questo link.
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