La guerra civile nella Repubblica Centrafricana continua a imperversare e la strage dei civili non ha fine, mentre le prospettive di pacificazione sono sempre più lontane, nonostante l’intervento di Francia e Unione Africana.
UNA SITUAZIONE CRITICA – Quella che sta vivendo la Repubblica Centrafricana è una tragedia di proporzioni immani. Vent’anni dopo la fine del genocidio in Ruanda, mentre gli occhi del mondo sono rivolti altrove, sulla Repubblica centrafricana si stanno allungando le ombre di una nuova guerra settaria. Paura e abbandono si mischiano con il sangue rappreso dell’ultima vittima. Le missioni francese, denominata Sangaris (dal nome di una farfalla africana), e dell’Unione Africana, MISCA (Mission Internationale de Soutien à la Centrafrique sous conduite Africaine), iniziate il 5 Dicembre 2013, non stanno ottenendo i risultati sperati. I rapporti di Amnesty International e Croce Rossa Internazionale sono drammatici e quotidianamente denunciano atrocità. Joanne Lui, presidente di MSF International, parla deliberatamente di catastrofe di massa. Nonostante le ripetute tregue firmate dalle parti in conflitto, la guerra civile è scoppiata è divampata ormai in tutto il Paese.
L’INIZIO DEL DRAMMA – La guerra è esplosa quando i Seleka, nel Marzo del 2013, hanno rovesciato l’ex presidente-dittatore François Bozizé e insediato Michel Djotodia, primo musulmano a guidare il Centrafrica. Secondo l’intellettuale e scrittore François Xavier Yombandjie, ex vescovo di Bossangoa:
«Nessuno, oggi come oggi, può affermare con certezza quali ragioni abbiano portato alla genesi di questo conflitto, che ha assunto la maschera di una guerra di religione. In ogni caso, il forte sospetto che il presidente ciadiano Deby, con l’avallo del Governo francese, abbia sostenuto i ribelli Seleka, con lo scopo di sfruttare le risorse di questo Paese, è difficile da allontanare. Nel corso degli ultimi trent’anni il Ciad è intervenuto in modo pesante nella vita politica della Repubblica Centrafricana, quasi la considerasse la ventunesima provincia del suo territorio, e non uno Stato autonomo e sovrano».
SELEKA – Secondo gli osservatori dell’ONU, le milizie Seleka (in sango, la lingua del Centrafrica, “Alleanza”), di composizione eterogenea, non fanno parte di un nuovo capitolo di neocolonizzazione islamica, come in Mali o in Nigeria, sebbene presentino al loro interno una forte percentuale musulmana. Alcune unità sono state foraggiate dal vicino Ciad, che ha sempre considerato la Repubblica Centrafricana come una propria provincia. Altre (si racconta senza certezza) sarebbero state sponsorizzate dalla Francia per riprendere le miniere che erano state cedute alla Cina. Altre ancora sono composte da mercenari giunti dal Sud del Ciad e dalla Libia dopo la caduta di Gheddafi, avvenuta nel 2011, e diversi sono i combattenti sudanesi del Darfur scesi dal Nord del Ciad.
ALTRI ATTORI IN GIOCO – La popolazione si è opposta all’avanzata dei Seleka creando dei gruppi di resistenza chiamati Anti-Balakà (dal songo “Anti-machete”), che si sono opposti agli invasori. Emotion, ex-portavoce degli anti-Balakà, spiega:
«Il movimento ha una struttura nazionale, al cui vertice siede Edoard Patrice Ngaissona, in funzione di responsabile politico. Il luogotenente Kokaté (ora consigliere del primo ministro, NdA) e il capitano Ngramangu si occupano rispettivamente delle operazioni militari e del coordinamento logistico. Movimenti di autodifesa sono sempre esistiti nella Repubblica centrafricana. Fanno parte della cultura di questo popolo. Per difendere la popolazione dalle violenze subite durante la presidenza di Djotodia, i giovani hanno deciso di imbracciare le armi e combattere. I francesi e i MISCA (i soldati dell’Unione Africana, NdA) sono nostri fratelli, ma non conoscono il Paese e non sanno muoversi. Non devono disarmarci, ma permetterci di aiutarli a sconfiggere i Seleka. Abbiamo difeso il Paese dalla schiavitù e dalla barbarie dei musulmani ciadiani».
Volevano cacciare gli stranieri che hanno invaso il loro territorio, però hanno finito per mettere in atto una rappresaglia violenta contro la popolazione musulmana. Ora, oltre alle morti che seminano per strada gli invasori in fuga, si aggiungono le stragi messe in atto dai nuovi ribelli. Secondo Didier Wangue, ex Ministro dell’Industria del Governo Bozizé, nessuno può sentirsi al sicuro: «La posta in gioco è troppo alta, la partita va ben oltre le forze in campo. Parigi ha abbandonato il presidente Bozizé, reo di aver manifestato l’intenzione di cedere i diritti di prospezione e sfruttamento delle risorse minerarie alla Cina. A quel punto Deby N’Djamena ha avuto carta bianca. Finanziando e armando i ribelli, Deby ha creduto di potersi impossessare della regione a nord del Paese, ricca di petrolio».
LA SITUAZIONE ATTUALE – Secondo gli esperti dell’ONU, il rischio di una somalizzazione del conflitto è molto alto. A complicare ulteriormente la scena c’è stata l’implosione del Fronte popolare per la rinascita del Centrafrica (FPRC), che raggruppa i sostenitori dell’ex Seleka. I Peul (la tribù di pastori nomadi presenti in tutta la fascia del Sahel) e i Goula ora si combatto per i terreni fertili del centro del Paese. I ribelli della fazione FPRC, legata all’ex presidente Michel Djotodia e al suo alleato Nourredine Mahamat Adam, lottano per la secessione e la creazione della Repubblica islamica di Dar al-Kuti, nel Nord del Paese. Sul fronte opposto anche gli Anti-Balakà ora si dividono tra nordisti Gbaya e Yakoma del Sud. I comandanti militari sono in competizione tra loro per strappare la direzione della componente più strutturata, il Coordinamento nazionale dei liberatori con a capo Patrice Edouard Ngaïssona, fuggito all’inizio di febbraio grazie a un’operazione condotta dall’esercito francese e della MISCA che ha portato all’arresto di diversi leader Anti-Balakà, accusati di massacri e furti ai danni della popolazione. Inoltre il Paese sta diventando una facile preda per tutte le guerriglie operanti nella regione, grazie alla porosità delle sue frontiere e all’assenza di controllo da parte dell’inesistente potere centrale. In questo momento l’Esercito di resistenza del Signore (LRA), movimento ribelle ugandese di Joseph Kony, imperversa in quattro province orientali e collabora con uno dei gruppi ex Seleka comandato dal colonnello Ahmed Sherif, nella provincia di Mbomou. Questo è il drammatico failed state, uno Stato fallito in preda a una profonda somalizzazione, cioè, come suggerisce il termine apparso negli anni Novanta (coniato dalla guerra ancora in atto in Somalia dal 1991), una situazione nella quale un’Autorità centrale perde il controllo, lasciando libero campo all’anarchia.
LA SOMALIZZAZIONE − Nel continente africano non si assisteva a scontri così orrendi dal genocidio del 1994 in Ruanda. Le 120mila anime del campo rifugiati di M’Poko, il più grande del Paese, vagano incerte senza più nemmeno la forza di disperarsi: sono il simbolo delle macerie del Centrafrica. Difficile pensare a come si possa ristabilire un clima di coabitazione e pacificazione tra tutte le forze in conflitto: la frammentazione delle parti in causa e l’odio etnico finora sprigionato gettano lunghe ombre sul futuro del Paese.
Marco Napoli
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Foto: UNMINUSCA
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