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Vi votiamo così

Un Caffè americano – Prima di concentrarci sulle maggiori differenze ideologiche e programmatiche dei due candidati in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, è utile ripassare il funzionamento del sistema elettorale americano e la struttura dei partiti, con un occhio di riguardo al pubblico cui i candidati si rivolgono. Che differenze, inoltre, corrono tra USA e Italia?

 

COME VIENE ELETTO IL PRESIDENTE? – Si sa che il Presidente degli Stati Uniti non è eletto dal parlamento come in Italia, ma dalla popolazione. Meno noto è che l’elezione avviene in due momenti: nel primo, a Novembre, gli elettori votano i “grandi” elettori, che poi, a Dicembre, eleggono il presidente seguendo le intenzioni di voto in base alle quali sono stati scelti. Bastano 270 voti (su un totale di 538 grandi elettori) per assicurarsi la Casa Bianca, che, dato che il numero di grandi elettori di uno stato dipende dalla sua popolazione, corrisponde agli undici stati più popolosi, quali California, Texas, New York, Florida. Questo spiega perché si possa essere eletti anche senza la maggioranza, come Bill Clinton nel 1996 che ottenne il 49% del voto popolare ma il 70% dei voti del collegio elettorale, o addirittura con meno voti dello sfidante, come George W. Bush nel 2000, che ottenne 271 grandi elettori ma oltre 100.000 voti in meno rispetto ad Al Gore. D’altra parte, se uno stato è già fortemente orientato a sinistra, come la California, o a destra, come il Texas, convincere la minoranza conta poco, dato che basta il 50% dei voti in uno stato per ottenere tutti i suoi grandi elettori. È per questo che la campagna si gioca in quei pochi stati dalla tradizione altalenante: i cosiddetti “swing states”, quali l’Ohio che ha votato a sinistra nel 2008, a destra nel 2004 e 2000, a sinistra nel 1996 and 1992, diventati le mete preferite per i comizi oltre che per le incessanti pubblicità elettorali.

 

PARTITI E IDEOLOGIE – Il sistema americano è dominato da sempre da due partiti, i Democratici (rappresentati dall’asinello) e i Repubblicani (il Grand Old Party, GOP, che si identifica nell’elefante). Non bisogna lasciarsi fuorviare da colori e terminologia, perché i primi sono chiamati “liberali” e dipinti in azzurro ed i secondi “conservatori” e dipinti in rosso. Non essendoci un terzo polo, ed assente la storia socialista europea, repubblicani e democratici convergono naturalmente verso il centro, proponendo politiche in genere più moderate di quelle associate in Italia alla sinistra o alla destra. Ma per capire appieno le differenze principali tra piattaforme politiche bisogna mettersi nei panni dell’ americano medio. Cresciuti in un clima fortemente individualistico, gli americani in genere non vedono di buon occhio lo stato federale, avversandone l’intrusione nelle scelte private e morali, se sono democratici, e nelle attività economiche ed imprenditoriali, se sono repubblicani. Questa forma di individualismo si manifesta con coerenza anche in tempi difficili, quando badare a se stessi è considerato meglio che dipendere dallo stato. L’ idea del “sogno americano”, in base al quale chi lavora duro va avanti e prospera, permea tutte le classi sociali, dalla più ricca alla più povera, anche se, contrariamente a quanto si immagina, la mobilità sociale in America non supera quella europea. Il divario crescente tra ricchi e poveri ed il peso della crisi economica hanno portato negli ultimi anni una riflessione sul sistema economico e governativo, emersa con i movimenti “Occupy Wall Street” ed il Tea Party che propongono soluzioni opposte per risollevare il 99%.

 

TEMI CALDI – In questo clima, i due partiti politici mirano ad ottenere il supporto della classe media (la fetta maggiore di voti) con programmi che seguono diverse filosofie. Da un lato i democratici sono più vicini all’idea di stato sociale europeo, intesa come responsabilità del governo a fornire una rete di salvaguardia in caso di necessità (non per ridurre le ineguaglianze economiche esistenti, ma per garantire un’eguaglianza di opportunità come punto di partenza), e non escludono l’intervento statale nelle attività economiche, senza però toccare libero mercato e concorrenza. Dall’altro, i repubblicani prediligono uno stato più snello con meno regole all’iniziativa privata ma anche meno responsabilità, lasciando le attività di assistenza alle comunità civili o religiose, e considerano iniquo versare allo governo più di quanto si riceve, tanto più che ciascuno è fautore della propria fortuna ma anche della propria sfortuna. I repubblicani sono inoltre socialmente più conservatori, per esempio in materia di famiglia (con l’opposizione al matrimonio tra persone dello stesso sesso) e religione e, a differenza dei democratici, vorrebbero che lo stato garantisse questi valori. A proposito di religione, va detto che gruppi religiosi e politica vanno abbastanza d’accordo in uno degli stati più religiosamente eterogeneo e praticante del mondo occidentale. Romney, candidato mormone, si attende i voti della sua comunità, e, come repubblicano quelli degli evangelici, da sempre associati alla destra come cattolici e soprattutto ebrei sono prevalentemente a favore dei democratici. E dalla religione il passo è breve alla regolamentazione delle scelte anticoncezionali e dell’interruzione volontaria di gravidanza (soprattutto quando è il governo a pagare per la copertura sanitaria), temi non solo a cuore degli elettori, ma, a differenza dell’ Italia, molto presenti anche nella retorica elettorale dei candidati. Oltre ad avere il sostegno dell’elettorato urbano e con elevati livelli d’istruzione, i democratici sono preferiti dalle minoranze etniche: il 95% della popolazione afro-americana ha votato e voterà in massa Obama, non necessariamente perché è il primo presidente nero, ma perché è un presidente democratico (Al Gore ottenne il 90% dei voti della comunità afro-americana, e Kerry l’88%). Stessa cosa per la comunità latino-americana, che costituisce un importante 15% e più dell’elettorato negli stati chiave, vicina a Obama per le scelte in materia sociale e di immigrazione. Giovani e donne propendono per Obama, come nel 2008, mentre i pensionati emergono dai sondaggi come più conservatori.

 

CHI FINANZIA? – Per dare qualche numero, Obama e Romney hanno già spesso più di un miliardo e mezzo di dollari in due per la loro campagna elettorale. Queste spese vanno a finanziare l’acquisto di spazio televisivo per le pubblicità, gli spostamenti dei candidati, consulenti elettorali e sondaggi, l’organizzazione degli eventi e la presenza sul territorio. Ma da dove vengono tutti questi soldi? Come in Italia, partiti e candidati hanno diritto a contributi statali e rimborsi elettorali, ma poiché accettare fondi statali comporta limiti ai contributi privati, sia Obama che Romney hanno declinato, per la prima volta nella storia delle elezioni presidenziali, i contributi governativi ed iniziato la corsa alle donazioni private. Obama batte Romney nel numero di donatori che hanno dato meno di 200 dollari alla sua campagna elettorale (55% contro 22%, sul totale dei contributi individuali) mentre Romney batte Obama per i contributi ai super-PACs (110 milioni contro 50), i comitati speciali che sostengono i partiti ma gestiscono le spese indipendentemente da loro, con la convenienza di poter raccogliere fondi illimitati da ciascun contribuente. Tra i maggiori donatori, Romney pesca prevalentemente tra impiegati di banche ed istituti finanziari e assicurativi (Goldman Sachs, Bank of America, Morgan Stanley) mentre Obama tra affiliati ad importanti università (Harvard, Stanford, Columbia, Berkeley), e grosse aziende (Google, Microsoft). Lobbysti ed attivisti contribuiscono lautamente, e se è difficile quantificare quanto i creditori abbiano guadagnato dai loro investimenti elettorali, gli interessi sono chiari nel campo delle fonti di energia tradizionali, del settore medico e farmaceutico, agricolo e difesa (a maggioranza per Romney) e delle energie rinnovabili, telecomunicazioni, sindacati (a maggioranza per Obama). Indicativo, per Obama, il calo notevole di fondi ricevuti da Wall Street, che lo aveva sostenuto nel 2008. E adesso che è chiaro come pensano e come votano gli Americani, non resta che vedere come le loro convinzioni reagiranno alla campagna incessante dei due candidati.

 

Manuela Travaglianti

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