Saudi Aramco, la più grande (e più impenetrabile) compagnia petrolifera al mondo, nonché gioiello di proprietà della Monarchia saudita, è pronta a sbarcare in Borsa. Il progetto è al centro dell’ambizioso piano economico lanciato dal giovane principe Muhammad bin Salman con l’obiettivo di rendere Riyad indipendente dal petrolio entro il 2030 e lanciare la sfida del Regno agli altri produttori mondiali
UN GIGANTE TRA GIGANTI − Di quotazione si parla già dallo scorso gennaio, quando l’ipotesi è stata accarezzata nel corso di un’intervista all’Economist dal principe Muhammad bin Salman, figlio del Re e secondo in linea di successione al trono. A soli 31 anni è lui il più giovane ministro della Difesa del mondo, nonché uomo forte di Riyad con in mano la gestione delle nomine chiave del Regno. È a lui che si deve la designazione di Khalid al-Falih, suo uomo di fiducia, prima come presidente della Saudi Aramco e poi, nei giorni scorsi, come Ministro del Petrolio, rimpiazzando in entrambi i casi il veterano Ali al-Naimi. Il Ministero del Petrolio è stato tra l’altro per l’occasione rinominato in Ministero dell’Energia, dell’Industria e delle Risorse minerali.
Saudi Aramco (contrazione di Saudi American Oil Company, nome che ne sintetizza la genesi fondata sugli interessi energetici americani nella regione), produce circa 10 milioni di barili al giorno, più dell’intero output degli Stati Uniti, pari al 12% della produzione mondiale: in pratica, stando a quanto dichiarato dalla stessa società, un barile su otto di tutti quelli prodotti nel mondo porta il marchio saudita. Una cifra che supera di tre volte quella del principale competitor, la russa Rosneft (3,9 milioni di barili al giorno), e più di quattro volte quella del colosso statunitense ExxonMobil (2,5 milioni).
Il gigante saudita può inoltre contare su riserve per 261 miliardi di barili, più di dieci volte quelle di ExxonMobil.
CIFRE DA CAPOGIRO − Ancora da definire i dettagli dell’operazione, ma ormai da mesi si parla di una quotazione di appena il 5% della società: abbastanza per drenare capitali esteri, ma non sufficiente per strappare il controllo decisionale alla casa regnante. Il gigante energetico è infatti una delle principali arterie del regime saudita, basti pensare che nove decimi delle entrate statali dipendono dalle rendite petrolifere.
Una rapida occhiata alle cifre è sufficiente per capire quanto l’operazione, attesa per il 2017 o il 2018, sia di portata colossale. Secondo le dichiarazioni del principe Muhammad bin Salman, la capitalizzazione di mercato di Saudi Aramco potrebbe aggirarsi intorno ai 2.000 miliardi di dollari, quasi quattro volte quelle di Apple e Alphabet, che si contendono lo scettro di società a maggior capitalizzazione del mondo. Con un valore stimato di 100 miliardi di dollari, la colossale offerta pubblica iniziale surclasserebbe di ben quattro volte quella record del gigante cinese dell’e-commerce Alibaba.
Quattro le possibili piazze per il listing: Londra, New York, Hong Kong e Riyad. Dal momento che la capitalizzazione della Borsa saudita si aggira intorno a soli 400 miliardi di dollari, è possibile che i vertici della compagnia optino per una doppia (o una tripla) quotazione.
Il deal costituirebbe un ghiotto affare per gli investitori internazionali: secondo quanto riportato dalla società di consulenza Rystad Energy, infatti, l’Arabia Saudita è insieme al Kuwait l’unico Paese al mondo in grado di produrre un barile di petrolio a meno di 10 dollari (Stati Uniti e Gran Bretagna, per esempio, viaggiano a valori di 36 e 52 dollari rispettivamente). La quotazione sulle piazze occidentali, tuttavia, potrebbe causare più di un grattacapo alla dirigenza saudita: le autorità di mercato di Londra, per esempio, richiederebbero l’accesso a dati su ricavi e capitale che sono gelosamente custoditi nelle impenetrabili stanze di palazzo. Vero è che il prezzo da pagare per ottenere i benefici dell’accesso al mercato dei capitali sarà lo sforzo di incrementare il livello di trasparenza di quella che è a tutti gli effetti una delle società più segrete del mondo.
Fig. 2 – Il principe Muhammad bin Salman
LA SFIDA DEL PRINCIPE MUHAMMAD BIN SALMAN − Perché la Borsa? L’IPO di Saudi Aramco è uno dei perni di Saudi 2030 Vision, il programma economico lanciato lo scorso 26 aprile dal principe Muhammad bin Salman. La sfida è quella di rendere l’Arabia Saudita indipendente dalle attività petrolifere entro il 2030: «Ne avremo bisogno, ma potremo vivere senza» già entro il 2020, ha anzi dichiarato il Principe all’emittente emiratina Al Arabyia.
Un traguardo ambizioso, visto che i proventi petroliferi rappresentano oggi per Riyad l’80% del totale delle entrate statali e contribuiscono al 45% del PIL, ma quanto mai necessario in questa fase di greggio ai minimi: per quanto il Principe abbia ribadito ai microfoni di Bloomberg che «il prezzo del petrolio non ci interessa» è un dato di fatto che il Regno ha chiuso il 2015 con un deficit di bilancio di 98 miliardi di dollari, pari al 15% del PIL. Un buco che ha costretto la Monarchia saudita a preventivare, per il budget 2016, tagli per 10 miliardi di dollari. E nel caso specifico di Riyad − è bene tenerlo presente − non si parla solo e semplicemente di “austerity”: per un sistema fondato sul modello del Rentier State (e dunque su un patto tra classe al potere e sudditi che prevede welfare a pioggia in cambio di quiescenza politica), misure come l’aumento delle tasse o il ridimensionamento del settore pubblico mettono in serio pericolo la sopravvivenza stessa del regime.
Tra gli obiettivi di Saudi 2030 Vision: incrementare il ruolo del settore privato, migliorare competitività e trasparenza per attrarre capitali esteri, far crescere la partecipazione femminile al mercato del lavoro (ma solo dal 22 al 30%). E, soprattutto, un massiccio piano di privatizzazioni e la creazione del Public Investment Fund, un fondo sovrano da 2.000 miliardi di dollari con l’ambizione di farne il più grande al mondo, nonché bacino di capitali al servizio della missione di diversificazione economica del Paese.
Fig. 3 – Khalid al-Falih, numero uno di Saudi Aramco
BRACCIO DI FERRO TRA GIGANTI DEL GOLFO − Il piano economico del rampante principe Muhammad bin Salman si inserisce in un quadro regionale e internazionale denso di insidie per i Saud. Il fragile Regno si trova infatti stretto tra il braccio di ferro geopolitico con Teheran e la lotta mondiale tra produttori di petrolio per difendere quote di mercato nell’era del mini-barile.
La fine del regime delle sanzioni internazionali ha determinato il ritorno dell’Iran sulla scena geopolitica ed energetica regionale, fattore che costituisce uno dei peggiori incubi della dinastia saudita. I due giganti del Golfo, del resto, si stanno già sfidando a distanza su due teatri bellici regionali, ovvero la Siria e lo Yemen, mentre l’esecuzione a Riyad del leader religioso sciita Nimr al-Nimr lo scorso gennaio ha portato a un’escalation di tensioni culminate con la rottura delle relazioni diplomatiche tra le due capitali.
Sul fronte del petrolio, l’Iran è del tutto intenzionato a riportare la produzione ai livelli pre-sanzioni, mentre la strategia cui Riyad è ormai fedele da due anni a questa parte è quella di sostenere l’output con l’obiettivo di difendere la quota di mercato. Il tutto facendo leva sulla propria capacità di produrre petrolio a minor costo per spingere fuori mercato i competitor, leggi shale oil americane, Russia e, appunto, Iran.
Lo si è visto nel meeting di Doha dello scorso 17 aprile, quando produttori OPEC e non-OPEC hanno provato a trovare un accordo per porre un tetto alla produzione e fermare il prezzo del greggio ai livelli di gennaio. Proprio quando i giochi sembravano fatti, l’allora ministro del Petrolio al-Naimi ha rimesso il cappuccio alla penna e dichiarato che non ci sarebbe stato nessun accordo senza l’Iran.
Che Riyad non abbia la minima intenzione di tagliare la produzione lo ha detto chiaro e tondo al-Falih il giorno della sua nomina: «L’Arabia Saudita non cambierà la sua politica petrolifera. Resteremo impegnati a mantenere il nostro ruolo sui mercati energetici internazionali». E come arma nel fodero i Saud hanno niente meno che Saudi Aramco.
Federica Casarsa
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
La nascita dell’Arabia Saudita deriva dall’unificazione delle tribù della penisola arabica da parte della casata dei Saud. L’attuale Regno è legato alla figura di Abd al-Aziz ibn Saud, che all’inizio del Novecento guidò l’espansione della sua tribù fino a cingere la corona saudita nel 1932. Il regime si fonda su tre assi: tribalismo, alleanza con gli USA (protezione militare in cambio di stabilità sui mercati energetici) e wahabismo. Il wahabismo è una corrente sunnita rigorista legata a doppio filo con la Monarchia saudita dal lontano 1744, quando l’emiro Muhammad ibn Saud e il giurisperito Muhammad ibn al-Wahab si allearono per unificare la penisola e farsi promotori di una purificazione dei costumi. Incarnato da un clero potentissimo, oggi il wahabismo è religione e ideologia di Stato. [/box]
Foto: theglobalpanorama