Accompagnato da immancabili polemiche, ma anche promotore di interessanti novità per il futuro del continente, si è svolto a Kigali dal 10 al 18 luglio scorso il 27° Summit dell’Unione Africana. Un luogo simbolo, paradigma di una ferita recente, ma anche dell’ambizioso orgoglio di una minuscola e innovativa nazione.
Nonostante l’informazione internazionale in merito sia piuttosto frammentaria, proviamo comunque a enucleare per punti quelli che a nostro avviso paiono essere gli outcomes più originali o significativi di questo decisivo incontro.
LA RICHIESTA DEL MAROCCO, 32 ANNI DOPO – Quasi inaspettatamente, domenica 17 luglio il presidente della Camera dei Rappresentanti marocchina, Rachid Talbi el-Alami, ha consegnato a Idriss Déby Itno – Presidente del Ciad, nonché presidente in carica dell’UA – e Paul Kagame – Presidente del Ruanda ospitante il meeting – un messaggio da parte del re Mohammed VI, con il quale il Marocco ha formalmente presentato la propria richiesta di riammissione nella «grande e nobile famiglia africana». Il testo, ricchissimo di sfumature retoriche e frasi di circostanza, è però al contempo efficacemente proiettato a sottolineare il ruolo civile e militare del Marocco per la stabilità politica e la prosperità economica del continente, nonché i positivi effetti della cooperazione culturale Sud-Sud già in atto tra la popolazione marocchina e quella di molti altri Stati africani. In particolare, dopo aver evocato le affiliazioni africane di Rabat (UMA, Censad, Cedeao), Mohammed VI ha voluto citare la spinta propulsiva al panafricanismo e ai movimenti di liberazione dal colonialismo portoghese attuata dal nonno Mohammed V prima e dal padre Hassan II poi: proprio quell’Hassan II fautore dello scisma con l’UA (allora OUA) consumatosi il 12 novembre 1984 durante il 20° Summit a causa dell’annosa diatriba circa la giurisdizione sui territori del cosiddetto Sahara Occidentale. Si ricordi solo come tale striscia di terra, colonia di Spagna fino al 1976, oggi contesa tra il Marocco appunto e il Fronte Polisario, abbia creato attriti diplomatici non solo tra il Regno marocchino e l’UA, ma pure tra quest’ultima e altre Organizzazioni quali la Lega Araba e le Nazioni Unite. Ovviamente la contesa ancora aperta non è casuale: non solo si stima un’abbondante presenza di petrolio, ma la regione risulta essere una miniera di fosfato di calcio (utilizzato in medicina, agricoltura e industria ceramica) di livello mondiale. Il sovrano di Rabat ha cordialmente ma fermamente intimato all’UA di ristabilire una posizione quantomeno di neutralità nei riguardi della controversia territoriale, per far sì che essa si risolva naturalmente grazie al processo di pace avviato sotto supervisione ONU, il cui Consiglio di Sicurezza (con la Risoluzione 1754/2007) si è fatto sostenitore di un referendum che però non si è mai tenuto. Da tutto ciò emerge un Marocco fiducioso, rinnovato nella propria autostima anche in vista della XXII Conferenza mondiale sul clima (“COP22”) che si terrà a Marrakesh il prossimo novembre e del forte partenariato strategico con le istituzioni UE sul fronte del contrasto al terrorismo jihadista.
Fig. 1 – La foto di gruppo del 27° Summit dell’UA, tenutosi a luglio in Ruanda
IL RINVIO DELLA NUOVA LEADERSHIP – La Commissione è, insieme al Consiglio esecutivo, organo essenziale nello svolgimento della vita dell’UA Nello specifico ne rappresenta una sorta di “segretariato generale”. Dal 15 luglio 2012 la presidente di tale Commissione è la sudafricana Nkosazana Dlamini, ex moglie di Jacob Zuma (attuale Presidente del Sudafrica) e già ministro della Salute, degli Affari Interni e degli Affari Esteri, che non ha cercato la rielezione a capo della Commissione. Lo scranno rimasto dunque vacante non è stato assegnato per supposta “insufficiente esperienza” dei candidati: Speciosa Wandira-Kazibwe (già vicepresidente ugandese e inviata di Ban Ki-moon per la lotta all’AIDS), curiosamente la meno votata, oltre a Pelonomi Venson-Moitoi (già al dicastero degli Esteri del Botswana, ora all’Educazione) e Agapito Mba Moku (titolare degli Esteri in Guinea Equatoriale). La decisione è stata rinviata a gennaio.
BURUNDI, SOMALIA E SUD SUDAN: NULLA DI FATTO – Quello precedente (2013) era stato il multilaterale sul dossier del Mali. In questo caso invece, pur tra i molti casi aperti, poco o nulla si è discusso nel profondo. L’etiope Netsanet Belay, coordinatore di Amnesty International in Africa, alla vigilia di questo Summit aveva posto l’accento sul bagno di sangue che contraddistingue oggi il Sud Sudan, cercando di farne un topic di primo rilievo nelle discussioni dei leaders africani. Belay si era preoccupato non solamente di trasmettere ai congressuali un memorandum dal titolo eloquente (Dalla retorica all’azione, con 7 passi concreti da attuare in difesa dei diritti umani, a partire dalla tutela delle donne), ma pure di consigliare loro di focalizzarsi non tanto sulla risoluzione ipso facto del conflitto, quanto sulla presa di coscienza delle stratificate condizioni a margine che ne fanno da causa profonda e che sono riscontrabili in svariati altri conflitti nel continente nero. Soluzioni strutturali, insomma, più che aggiustamenti del momento. Come troppo spesso accade, nulla di significativo è però stato deciso, né alcuna azione specifica è stata prevista. Amnesty International a ogni modo non si era limitata al Sud Sudan, chiedendo piuttosto all’UA di agire affinché si frenasse la repressione del dissenso, fosse garantita libertà di parola e manifestazione agli attivisti, si ratificasse più estensivamente il protocollo di Maputo del 2003 (su empowerment femminile e depenalizzazione dell’aborto) e si adempisse con regolarità agli obblighi di reportistica al fine di fornire dati accurati per statistiche e classifiche. Ma è forse nel disimpegno isolazionistico nei confronti del diritto internazionale e dei suoi rappresentanti che si esprime il peggio della situazione in cui l’UA versa allo stato attuale: basti pensare al fatto che per l’ennesima volta il condannato ʿOmar Hasan Ahmad al-Bashīr, Presidente del Sudan, ha presenziato a un incontro estero senza il minimo timore di essere arrestato in ottemperanza alle regole che dovrebbero governare l’operato degli aderenti allo Statuto di Roma − della relazione tra Corte Penale Internazionale e UA, con focus speciale su Khartum, il Caffè ha già discusso qui. Un bilaterale tra al-Sīsī e al-Bashīr, incentrato su una pur positiva free telecommunications network area, restituisce un’immagine ancor più lugubre della partnership incontrastata tra leaders quantomeno discutibili, se non proprio criminali. Per quanto concerne il Burundi, purtroppo non vi è molto da segnalare: la delegazione di Bujumbura ha abbandonato quasi immediatamente i lavori, dopo aver accusato il Presidente ruandese di fomentare la rivolta contro Pierre Nkurunziza. Questo pochi giorni prima che le Nazioni Unite finalmente si decidessero a inviare più di 200 peacekeepers per provare a fermare le violenze, di cui abbiamo trattato qui, qui e qui.
Fig. 2 – Nkosazana Dlamini Zuma, Presidente dell’UA
UN DOCUMENTO SIMBOLO PER SENTIRSI AFRICANI – Previsto dall’Agenda per l’Africa 2063 concordata nel 2014, appare essere più vicino a un gesto simbolico che a una reale intenzione di alterare le policies di movimento infracontinentale quello dell’emissione di alcuni passaporti “africani” che consentirebbero di viaggiare liberamente all’interno dei confini dei Paesi aderenti all’UA. L’esperimento è iniziato con il rilascio di qualche decina di documenti riservati ai leaders politico-diplomatici, ma si può ragionevolmente esercitare il proprio scetticismo all’annuncio che tale esperimento possa estendersi gradualmente a tutti i cittadini. Uno scetticismo dettato non solamente dalle numerose dispute territoriali irrisolte, ma anche dall’eterogeneità delle forme di Governo presenti in Africa, così come dalla necessità sempre più sentita di contenere o almeno provare a gestire gli impressionanti flussi migratori interni al continente. A ogni modo il simbolo è piuttosto forte, ancor più quando lo si accosta a un’Europa che sta invece lasciando erodere giorno dopo giorno la propria iniziale vocazione federalista: se l’Unione europea perde il Regno Unito, litiga con la Turchia e riceve da Berna la notizia del congelamento dell’ipotesi di adesione, quella Africana (giuridicamente ben distante dall’omonima del Vecchio Continente) pone in campo uno strumento nuovo, sintomo perlomeno di un’attenzione alla tematica dello “spazio” non solo economico (commercio), ma parimenti sociale (integrazione e identità di cittadinanza).
Fig. 3 – Il Presidente del Ruanda Paul Kagame
DALL’INDIPENDENZA ECONOMICA ALL’INDIPENDENZA OPERATIVA? – Si spera che si traduca presto in efficientamento gestionale la decisione di destinare direttamente all’Unione lo 0,2% delle tasse su una serie di prodotti d’importazione, per un totale di 1,2 miliardi di dollari che andranno a confluire nelle casse comuni. Un cambio di rotta apprezzabile, coraggioso e lungimirante che segna una nuova governance economica dell’Organizzazione al fine d’incrementarne il coefficiente di smarcamento dalle pretese e necessità di ognuno dei 54 Paesi membri, nonché dagli aiuti della comunità internazionale. Il cambio di passo è stato reso possibile dall’impegno di una classe dirigente che sembra avere a cuore le sorti di un destino comune. A titolo meramente esemplificativo potremmo citare Donald Kaberuka, ex presidente dell’African Development Bank (dal 2005 al 2015) che, dopo aver studiato in Inghilterra e lavorato negli USA, è rientrato in patria contribuendo convintamente al rilancio sostenibile del Ruanda. Come al solito, sotto i buoni auspici del clima di relativa serenità in cui si sono svolti i lavori nella capitale ruandese, la speranza è che questo nuovo sistema venga effettivamente implementato in tempi rapidi (in linea teorica, già dal 2017). Questo è stato il vertice UA più partecipato (fisicamente) e seguito (su social networks e siti specializzati) di sempre dal popolo africano e dai suoi rappresentanti. Un piccolo barlume di speranza per il domani.
Riccardo Vecellio Segate
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Un paio di pagine estremamente critiche, di cui si reputa loro malgrado utile una lettura, sono recuperabili qui e qui.
La versione in lingua inglese di CCTV, emittente televisiva di Stato cinese, ci offre al contrario un interessante e ottimistico reportage direttamente da Kigali, arricchito con preziose interviste:
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Foto di copertina di Embassy of Equatorial Guinea pubblicata con licenza Attribution-NoDerivs License