Il primo febbraio il Fondo Monetario Internazionale ha emesso una “Dichiarazione di censura” ai danni dell’Argentina per non aver fornito dati economici sufficientemente adeguati. E’ la prima volta dall’anno della sua fondazione nel 1944 che l’organizzazione adotta una simile sanzione nei confronti di un Pese membro. Un caso che rischia di aprire una controversia internazionale senza precedenti
L’INFLAZIONE – Dopo aver preso in esame una nota informativa redatta da Christine Lagarde, con una procedura anomala il FMI ha “censurato” il Governo argentino. La motivazione espressa nel comunicato ufficiale è il mancato adeguamento qualitativo “dei dati ufficiali riportati al FMI sull’Indice dei Prezzi al Consumo della regione del Gran Buenos Aires (IPC-GBA) e il Prodotto Interno Lordo (PIL)”. Tradotto: Buenos Aires sostiene che il tasso d’inflazione nell’economia si aggiri sui 10,8 punti percentuali, un rilevamento “truccato” secondo Washington, secondo cui invece l’inflazione argentina avrebbe raggiunto il 25%, la più alta del Sudamerica e tre le più alte al mondo. Una discrepanza notevole. In tal modo l’Argentina avrebbe violato l’Articolo VIII, sezione 5 dell’Accordo Costitutivo con il FMI, il quale impegna ciascun integrante a fornire indicatori statistici in linea con i parametri utilizzati a livello internazionale.
L’ESPULSIONE – La mozione di censura fa seguito al richiamo ufficiale del 24 settembre scorso, giorno che inaugura quella che ormai è da più parti considerata la “guerra delle due Cristine”: la Direttrice Lagarde da un lato, la Presidenta Kirchner dall’altro. Già in quella circostanza fu possibile intravedere le avvisaglie di quanto poi successo il primo febbraio. Cristina Fernández, in un discorso pronunciato dinanzi l’Assemblea Generale dell’ONU pochi giorni dopo, dichiarò con fermezza la volontà di difendere il popolo argentino da ciò che riteneva essere un’esplicita minaccia. All’ammonizione verbale della Lagarde faceva infatti seguito la possibilità di un’espulsione, sancita di fatto dalla censura, che impone al Governo argentino la correzione dei dati forniti entro e non oltre il 29 settembre 2013. Il rischio è quello di un’automatica ineleggibilità dell’Argentina per l’utilizzo delle risorse finanziarie e la sospensione del diritto di voto, con la conseguenza diretta di dover abbandonare l’organizzazione. Se si escludono i casi della Cecoslovacchia nel 1954, di Cuba nel 1964, della Somalia e dello Zimbabwe, le cui circostanze differiscono enormemente dal caso argentino, mai nella sua storia il FMI ha intrapreso un’azione simile nei confronti di un paese membro. L’ipotesi dunque creerebbe un precedente eclatante, la cui imprevedibilità potrebbe senz’altro ripercuotersi sugli equilibri già precari di un sistema economico alle prese con la più grande crisi finanziaria dopo la Grande Depressione degli anni Trenta.
LA SENTENZA GRIESA – Altro punto su cui si snoda l’intero confronto sembra essere l’esito della sentenza Griesa. Il giudice statunitense ha condannato l’Argentina al pagamento di 1,33 miliardi di dollari quale copertura di garanzia per quegli hedge funds che non hanno accettato le due ristrutturazioni del debito, nel 2005 e nel 2010, dopo la crisi del 2001. Il verdetto definitivo del processo è stato posticipato da dicembre 2012 a febbraio 2013. A questo si aggiunga che sempre a dicembre le due delle principali agenzie di rating, Fitch e Moody’s, hanno abbassato in un sol colpo il livello di affidabilità argentina da B a CC. Il livello di un paese prossimo al default. C’è una contraddizione evidente, poiché proprio durante l’ultimo Vertice del FMI di Tokyo dell’ottobre scorso, la stessa Lagarde valutava il debito pubblico argentino nel 2011 pari al 41,8%, contro il 166,4% del 2002. Non pochi analisti hanno dunque intravisto un’ambigua pressione del FMI dal momento che la censura, rilevando ufficialmente l’inattendibilità di Buenos Aires, aumenterebbe ulteriormente la speculazione finanziaria.
L’EMBARGO FINANZIARIO – Dopo aver affrontato le conseguenze del default più grande della storia, a partire dal 2003
l’Argentina ha basato il proprio sviluppo su un maggiore controllo delle proprie risorse economiche e delle politiche sociali. Ha adottato un modello di gestione finanziaria volta a far rientrare nel perimetro statale la schizofrenia dei mercati. Inoltre con il pagamento di 9530 milioni di dollari nel 2006 ha estinto il proprio debito, ritagliandosi in tal modo un’importante margine di autonomia dai condizionamenti del FMI. Così come sottolineato da Julio C. Gambina, la critica ai dati sul tasso d’inflazione non è sbagliata. Sbagliato semmai è stigmatizzare il paese costringendolo ad un aggiustamento strutturale regressivo. L’adeguamento infatti stringerebbe un cappio finanziario al collo della spesa pubblica e di quella sociale, colpendo direttamente il settore del lavoro, dell’educazione e della salute. Ossia quelli su cui si basa in parte il successo del kirchnerismo e della seconda economia più grande del Sudamerica. Tecnicamente la censura e l’eventuale espulsione non infliggerebbero dei danni diretti, considerando che da sette anni l’Argentina non chiede alcun prestito basando la propria crescita esclusivamente sulle proprie risorse interne. Ma è proprio dall’interno che agirebbe quello che può definirsi un vero e proprio embargo finanziario. Messa ai margini del sistema internazionale e date le ripercussioni dirette che si avrebbero sulle relazioni con organismi quali la Banca Mondiale o l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), il rischio sarebbe quello di una implosione indotta dai mercati e un accartocciamento dell’economia su se stessa. Non sarebbe fantapolitica pensare quindi ad una situazione talmente critica che porterebbe ad un inevitabile cambio politico nel paese.