Una “Dichiarazione politica” letta in arabo e approvata oralmente dal premier Fayez Al Sarraj, dal generale Khalifa Haftar, dal presidente della Camera dei Rappresentanti, Aquila Salah, e dal presidente dell’Alto Consiglio di Stato, Khalid al-Mishri. È tutto ciò che il capo di stato francese, Emmanuel Macron, è riuscito a strappare al vertice di Parigi per tentare di risolvere la crisi libica. Nessuna firma su un pezzo di carta, però. Il che la dice lunga dell’affidabilità del percorso.
Nella dichiarazione è stata concordata la definizione di «una base costituzionale per le elezioni entro il 16 settembre» e di andare a «elezioni parlamentari e presidenziali il 10 dicembre dell’anno in corso». L’impegno orale trova il pieno appoggio dell’ONU e della comunità internazionale. L’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salamé – che ha definito «storico» l’incontro – si è detto molto ottimista sul processo politico e ha affermato: «Noi non ci sostituiamo ai libici, sono loro che vanno d’accordo, è importante».
Ma è davvero così? Uno dei punti nodali, infatti, è la gestione del percorso elettorale: a Parigi si è infatti stabilito che saranno le sole forze di sicurezza nazionali a garantire il regolare svolgimento delle elezioni. Peccato che tra queste vi siano numerose milizie, alcune delle quali protagoniste in queste ore di scontri armati a Tripoli. Scrive Vincenzo Nigro di Repubblica: «Nella notte fra venerdì e sabato alcune potenti milizie libiche si sono mosse a Tripoli e hanno preso il controllo dei palazzi del governo che erano affidati alla Guardia presidenziale. Secondo osservatori indipendenti in Libia, si tratta innanzitutto della potentissima milizia di Misurata ‘Katjiba Halbous’, che da quando è stata integrata nell’esercito libico è diventata Brigata 301».
Questo rappresenta solo uno dei mille episodi di scontri tra bande armate che controllano la capitale e tengono in scacco il debole premier Fayez Al Serraj. Sminuito da più voci come un «cambio negli equilibri militari di chi controlla la città», il segnale è però chiaro: non vi è certezza su chi sia davvero in grado di controllare o mettere in sicurezza la capitale. Sarraj ha fatto appello a tutte le forze per «far cessare i combattimenti ovunque in Libia», ma la sua voce non ha mai raggiunto Bengasi, dove il redivivo generale Haftar è sceso in parata militare per le strade della città a dimostrazione del suo peso politico e della forza militare di cui dispone.
Tra le altre promesse di Parigi «per migliorare il clima in vista delle elezioni» vi sono: il trasferimento della Camera dei Rappresentanti di Tobruk a Tripoli; lo scioglimento del governo della Cirenaica; l’unificazione della Banca centrale libica e delle altre istituzioni; infine, la riunificazione delle forze armate e delle milizie sotto l’egida dell’ONU. Tutti nodi che verranno molto presto al pettine, mentre il polso della situazione ce lo darà l’estate, quando gli sbarchi e i traffici di esseri umani potrebbero mantenersi sotto il livello di sicurezza raggiunto (grazie anche agli sforzi italiani) nel 2017, oppure innalzarsi in concomitanza con il salire della posta in gioco. Che poi è il futuro stesso della Libia, una e unificata. La Francia ci prova, l’Italia osserva.
Lucio Tirinnanzi – Oltrefrontiera
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