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Reportage dalla Bielorussia (II): un anno dopo le proteste

AnalisiIl Presidente Lukashenko sembra aver davvero esagerato con le repressioni e probabilmente non gli verrà riconosciuto neppure ciò che di buono ha fatto per il proprio Paese.

La prima parte del reportage è qui.

A GRODNO

Nonostante sappia di rischiare ritorsioni nel caso in cui qualcuno dei suoi connazionali la senta, Viktoria Vladimirna non ha paura e racconta molto volentieri gli avvenimenti del 2020. Si stupisce di essere ancora in libertà, nonostante si sia dichiaratamente schierata contro Lukashenko. Viktoria dimostra molti meno anni di quelli che ha. Cinquantenne, lavora come insegnante di matematica in un liceo di Grodno, una città a nord-ovest del Paese, a pochi chilometri dal confine con la Polonia e la Lituania. Viktoria siede in un caffè del centro, da dove è visibile la cattedrale di San Francesco d’Havier, un monumento barocco costruito dai gesuiti ai tempi della Controriforma. A Grodno, infatti, non vivono solo bielorussi ortodossi, ma anche polacchi cattolici. Sul lato destro della chiesa, dove un tempo c’erano gli alloggi dei gesuiti, si trova il carcere cittadino. Una prigione in pieno centro, separata dal resto dalla città da un muro bianco con in cima il filo spinato. Dal cortile si sente il lugubre latrare dei cani. “Ricordo perfettamente il 9 agosto dell’anno scorso. Mio figlio faceva l’osservatore in un seggio elettorale di Grodno in occasione delle elezioni presidenziali. A un certo punto, quando gli scrutatori si sono accorti che stava succedendo qualcosa di inusuale, hanno mandato a casa tutti gli osservatori”. Viktoria parla lentamente, mentre con le dita della mano sinistra accartoccia nervosamente un biglietto dell’autobus usato. “La cosa strana che ha tanto stupito gli scrutatori era il fatto che Svetlana Tikhanovskaya aveva preso più voti del Presidente Lukashenko”. Svetlana Tikhanovskaya era l’unica candidata a contendere il titolo a Lukashenko alle elezioni presidenziali del 2020: aveva deciso di entrare in politica dopo che il marito Sergei Tikhanovsky, blogger e imprenditore, era stato arrestato nel maggio del 2020. “La polizia ha cercato gli osservatori, casa per casa, e ha intimato loro di tacere. Quelli che avevano denunciato le irregolarità sulle reti sociali sono stati portati in questura. A Grodno, il 10 agosto e nei giorni successivi, in piazza Lenin c’erano almeno 45.000 persone che urlavano a Lukashenko “Vattene!”. La polizia ha caricato, ha inseguito i manifestanti: alcuni si sono rifugiati nelle chiese, sia quelle ortodosse, sia quelle cattoliche. La polizia è entrata e ha picchiato gli oppositori anche all’interno dei luoghi sacri. Una vergogna. Nei giorni successivi la situazione a Grodno si è leggermente placata: Lukashenko ha capito che la vera battaglia si giocava a Minsk, e lì la repressione è stata impietosa. Qui da noi la polizia si è limitata a disperdere i manifestanti; in ogni caso, coloro che protestavano e che sono stati riconosciuti sono finiti in carcere. Mi stupisce che io sia ancora in libertà… In prigione le condizioni sono disumane: i secondini svegliano tre volte a notte i detenuti, chi si ammala di Covid-19 non viene curato. In questi giorni sono iniziati anche i processi a carico dei manifestanti, tutti a porte a chiuse. Ci sono decine di condanne al giorno, ma l’opinione pubblica non viene informata. La gente ha paura, ma la brace arde ancora, sotto la cenere…”. Al caffè in cui siede Viktoria arriva anche padre Vladimir: prete ortodosso, scrive poesie e da anni lavora con i giovani tossicodipendenti. Ha un sorriso largo e solare, un viso coperto da una barba corta e ispida e somiglia a una rock-star più che a un ministro di Dio. Il sorriso scompare non appena si nominano le proteste. Padre Vladimir non ne vuole parlare. “Non sapete cosa succede quando la polizia si arrabbia? Pensavamo che i poliziotti avrebbero solidarizzato con i manifestanti. Invece no, sono entrati in Chiesa e nei giorni successivi alle manifestazioni i preti, ortodossi e cattolici, che hanno apertamente appoggiato la ribellione sono stati allontanati dalle proprie parrocchie”.

Fig. 1 – Nuvole nere su Grodno | Foto: Christian Eccher

LUKASHENKO E LA PANDEMIA

I manifestanti protestavano anche per la cattiva gestione dell’emergenza legata alla pandemia da Covid-19. Lukashenko, infatti, non ha voluto introdurre particolari misure per contenere il contagio, a parte l’obbligo di mascherina nei locali chiusi e la distanza fisica fra le persone. In realtà la situazione in Bielorussia non sembra essere peggiore che altrove. Il numero dei contagi è più o meno simile a quello registrato nelle democrazie occidentali che hanno messo in atto misure radicali per limitare i danni dell’epidemia. Anastasia A. lavora come medico in un centro Covid della periferia di Grodno. Sostiene di non essere una sostenitrice di Lukashenko, ma si sforza di guardare in maniera obiettiva, per quanto possibile, la situazione in cui il suo Paese attualmente si trova: “Lukashenko non ha colpe eccessive per quel che riguarda la pandemia. Ha scelto di non chiudere nulla per salvaguardare l’economia e la salute mentale dei cittadini. Il sistema sanitario ha passato momento difficili, ma ha retto. Il problema è un altro: il Presidente ha esagerato. Ha dichiarato la vittoria alle presidenziali con un sostegno popolare dell’80%, cosa davvero irreale. La gente si è arrabbiata e lui, invece di ascoltarla, di trovare un compromesso con l’opposizione, ha scatenato una battaglia immane contro i poveri manifestanti. Morale: adesso verrà considerato responsabile di tutto ciò che accade nel Paese, non solo delle morti di Covid, ma anche della caduta di una qualsiasi vecchietta per la strada. È colpa sua, il potere l’ha accecato. L’arroganza e l’avidità di potere sono peggiori di tutti i coronavirus esistenti”.

Fig. 2 – Manifesto che inneggia al 2021 come anno dell’unità nazionale | Foto: Christian Eccher

LUKASHENKO HA ANCHE FATTO COSE BUONE

Lukashenko ha guadagnato la fama di “Ultimo dittatore d’Europa” non per via delle repressioni dell’anno scorso, ma a causa di alcune scelte politiche che non sono affatto piaciute all’Occidente. La prima è stata quella di non vendere ad alcuni imprenditori americani la nota fabbrica di trattori Belaz, la terza al mondo per produzione e fatturato. Ha anche rifiutato un prestito del FMI in cambio di riforme neoliberiste che avrebbero dovuto privatizzare le aziende pubbliche. La Bielorussia è rimasta così l’unico Paese del blocco sovietico ad aver conservato le proprie fabbriche, che ancora lavorano, producono e in alcuni casi esportano. Il paesaggio bielorusso non è come quello dei Paesi limitrofi: non ci sono edifici diroccati a testimoniare il crollo del sistema sovietico. Tutto è ancora in funzione. Lukashenko non ha permesso agli oligarchi, locali e stranieri, di comprare per un tozzo di pane fabbriche e indistrie al fine di rivendere i macchinari e spostare i capitali così gudagnati all’estero. Un esempio lampante è la Gronitex di Grodno, un’industria che produce tessuti di lino e cotone. Fondata agli inizi del 1960, è ancora funzionante e dà lavoro a 400 persone. Gli impiegati sentono di far parte di una grande famiglia e sono fieri di lavorare per questa industria, che, prima delle sanzioni, esportava i propri prodotti anche nell’UE: adesso esporta prevalentemente in Russia, in Asia e in Africa.

Fig. 3 – La sede della Gronitex a Grodno | Foto: Christian Eccher

In Bielorussia il popolo non è mai rimasto senza lavoro e per questo Lukashenko aveva, fino a un paio di anni fa, un sostengo incondizionato. Che cosa è andato storto, quando si è rotto il legame fra il popolo e il Presidente? La pandemia ha sicuramente contribuito a creare insicurezza, ma il nocciolo del problema è che Lukashenko ha semplicemente fatto il suo tempo. Ha promosso un sistema politico in cui solo chi è vicino al partito del Presidente gode di piena cittadinanza: tutti gli altri sono esclusi dai posti di lavoro migliori e non hanno possibilità di carriera. La retorica che utilizza per ottenere il consenso, inoltre, è ancora di stampo sovietico. Per i giovani, però, la Grande Guerra Patriottica e la vittoria sui nazisti sono concetti lontani. Per loro, la Germania e l’Europa non sono sinonimi di occupazione e fascismo, ma di libertà e di sviluppo. Lukashenko, arroccato nel suo palazzo, non ha saputo dialogare con le nuove generazioni, che adesso lo odiano profondamente. Il Presidente ha promesso anche di aprire il Paese al multipartitismo: è troppo tardi. Pagherà per le repressioni del giugno scorso e probabilmente non gli verrà riconosciuto neanche ciò che di buono ha fatto per la Bielorussia.

Christian Eccher

Photo by Artem Podrez is licensed under CC0

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Perchè è importante

  • Il popolo bielorusso non ha dimenticato le proteste delle scorso anno e si sente abbandonato dalle élite, che sembrano vivere in un mondo a parte.
  • Lukashenko ha garantito al Paese stabilità e lavoro: non si è mai piegato ai diktat delle potenze occidentali e non ha svenduto le aziende pubbliche.
  • Tuttavia non ha saputo dialogare con le nuove generazioni e, dopo le repressioni dell’anno scorso, si ha l’impressione che verrà ricordato esclusivamente come uno dei peggiori dittatori della storia europea.

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Christian Eccher
Christian Eccher

Sono nato a Basilea nel 1977. Mi sono laureato in Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, dove ho anche conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sulla letteratura degli italiani dell’Istria e di Fiume, dal 1945 a oggi. Sono professore di Lingua e cultura italiana all’Università di Novi Sad, in Serbia, e nel tempo libero mi dedico al giornalismo. Mi occupo principalmente di geopoetica e i miei reportage sono raccolti nei libri “Vento di Terra – Miniature geopoetiche” ed “Esimdé”.

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