Le città turche tornano a infiammarsi al termine di un fine settimana all’insegna della tranquillità. Che cosa ci si deve aspettare dai prossimi giorni? In molti chiedono le dimissioni di Erdogan, ma in realtà è molto improbabile che il Primo Ministro compia un passo indietro
UN’OPPOSIZIONE ETEROGENEA – Dopo due giorni di sostanziale tregua, ieri in Turchia sono ripresi gli scontri tra manifestanti e polizia. Durante la scorsa settimana, il presidente Gul aveva invitato le parti alla moderazione e alla concordia, ma il premier Erdogan, di fronte al ritorno in piazza di decine di migliaia di dimostranti, ha avvertito che le manifestazioni stiano sfidando la «pazienza del Governo». Allo stato attuale, non è possibile prevedere come si evolverà la vicenda turca, però difficilmente si giungerà alle dimissioni del Primo Ministro. Il fronte dei dimostranti, infatti, è estremamente eterogeneo – troppo per divenire un movimento unitario – poiché comprende appartenenti a gruppi di destra e di sinistra, anarchici, kemalisti, socialisti, islamisti di tendenze varie, persino i tifosi delle più importanti squadre di calcio turche (Galatasaray, Fenerbahce, Besiktas), che per l’occasione hanno posto in disparte le ostilità. Questa dinamica rende ancora più evidente quanto il contrasto alla cementificazione di piazza Taksim sia stata la scintilla e non la causa delle rivolte, oltre a dimostrare che la stessa argomentazione dell’islamizzazione progressiva del Paese da parte dell’AKP, il partito di Governo, sia un tema importante, però non il principale della protesta.
DEMOCRAZIA E AUTORITARISMO – In Turchia c’è sicuramente il rischio di una deriva autoritaria, poiché Erdogan sta interpretando l’ampio consenso elettorale come un mandato a procedere con misure spesso gradite alla sola maggioranza. In discussione c’è anche un progetto di riforma costituzionale in senso presidenzialista che il Primo Ministro vorrebbe approvata entro le elezioni del 2014. Nonostante ciò, la Turchia è un Paese sostanzialmente democratico, salvo alcune evidenti lacune (in questo senso sarebbe fondamentale proseguire i negoziati con l’UE). A essere in crisi non è il sistema turco nel suo complesso, bensì il modello attuato in questi anni da Erdogan: pur garantendo uno sviluppo economico notevole, il Primo Ministro ha spesso agito senza tener di conto delle istanze di determinati settori della società o di comunità locali, che si trovavano a dover subire passivamente scelte che l’AKP legittimava sulla base del solo consenso elettorale. Non si tratta quindi di una “Primavera turca”, poiché il contesto è completamente diverso da quello dei Paesi arabi attraversati dalle rivolte, a cominciare dal fatto che il Primo Ministro non sia un despota, bensì abbia una cornice costituzionale delineata, come ha dimostrato l’intervento del Presidente della Repubblica, Gul. Casomai – e qui influisce quella sospensione della Turchia tra Occidente e Oriente – si è di fronte a una sorta di “Occupy Turkey”.
DIMISSIONI DI ERDOGAN? – Nel complesso, poi, è improbabile che Erdogan decida di dimettersi, principalmente per due motivi. Innanzitutto, si tenga presente che quell’ampio successo elettorale che ha permesso all’AKP di governare anche senza confronto con l’opposizione deriva da un processo democratico e non è svanito nel nulla. In secondo luogo, lo sviluppo economico favorito dalle misure di Erdogan hanno giovato a molti in Turchia, ed è difficile che chi ha davvero ottenuto qualche vantaggio (si tratta anche solo di semplici miglioramenti salariali) si schieri con un fronte eterogeneo che contesta il modello turco contemporaneo.
Beniamino Franceschini