In 3 sorsi – Dopo la liberazione del Primo Ministro Hamdok dagli arresti domiciliari, il generale al-Burhan ha stipulato con lui una nuova intesa per guidare la transizione democratica del Paese verso le elezioni del 2023. I cittadini e diversi ministri però protestano per l’ingerenza militare nel Governo civile.
1. GLI SVILUPPI DOPO IL COLPO DI STATO
Lo scorso 25 ottobre in Sudan i militari, guidati dal generale Abdel Fattah al-Burhan, hanno sconvolto il già precario equilibrio democratico del Paese con un colpo di Stato, durante il quale hanno arrestato numerosi esponenti politici, tra cui il Primo Ministro Abdalla Hamdok, e hanno represso le proteste civili con proiettili e gas lacrimogeni. Nonostante le testimonianze dei cittadini, tuttavia, le forze di sicurezza continuano a negare di aver utilizzato munizioni vere e sostengono di essersi attenuti a un livello di “forza minima”. Nel corso dei giorni successivi il generale al-Burhan ha dichiarato lo stato di emergenza e ha incoraggiato i cittadini a unirsi ai militari, dando voce a una minoranza dei civili e dei vertici del Governo, che ultimamente criticava le modalità con le quali il Presidente stava affrontando la grave crisi economica del Paese. I militari hanno poi revocato gli arresti domiciliari per Hamdok e liberato alcuni suoi alleati, ma il numero dei prigionieri politici rimane sconosciuto, mentre il Comitato dei medici sudanesi ha contato almeno 40 vittime dall’inizio degli scontri. Nel 2019, in seguito alla caduta del regime dell’ex Presidente al-Bashir, era stata redatta una Dichiarazione Costituzionale che avrebbe dovuto guidare il processo di transizione democratica del Paese fino alle elezioni del 2023 con un coinvolgimento dell’apparato militare nel Governo ben delineato. Al di là delle preoccupazioni per la gestione della crisi economica da parte del Governo di Hamdok, la maggior parte dei cittadini è scesa in piazza per manifestare contro il golpe militare, scandendo lo slogan: “Potere al popolo, un governo civile è la scelta del popolo”.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Un’immagine dalle proteste a Khartoum, 30 novembre 2021
2. I NUOVI NEGOZIATI
Il 21 novembre Hamdok e al-Burhan hanno firmato un accordo politico composto da 14 punti, che prevede l’istituzione di un gabinetto indipendente tecnocratico guidato dal Primo Ministro, al quale è concesso il potere di nomina dei ministri. I militari tuttavia eserciteranno il controllo sul Governo. Alla luce degli ultimi eventi la partecipazione militare all’interno dell’amministrazione statale desta forti dubbi su quanto potere decisionale avrà il Primo Ministro de facto. Tutte le sue proposte infatti dovranno passare al vaglio del Generale e dei suoi alleati. Se da una parte la comunità internazionale si è dichiarata favorevole a questa intesa politica, dopo aver condannato l’azione delle Forze Armate e richiesto il ritorno di Hamdok come Primo Ministro, i civili hanno interpretato i negoziati come un tradimento da parte del premier e persino come un “tentativo per legittimare il colpo di Stato”. Anche se Hamdok durante un’intervista a Sudan Tv ha affermato fiducioso “rimetteremo il Paese sulla strada giusta”, fonti vicine hanno rivelato ad Al Jazeera che il Primo Ministro ha accettato l’accordo principalmente per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Su un punto però Hamdok è irremovibile: la scarcerazione di tutti gli oppositori politici. Qualora i militari non acconsentiranno alla loro liberazione, “l’accordo non avrà valore”.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Una manifestazione a Khartoum, 30 novembre 2021
3. LE ULTIME PROTESTE
Il nuovo accordo politico stipulato tra il Primo Ministro e il Generale non ha attenuato le proteste dei cittadini, i quali sono scesi in piazza per protestare contro l’ingerenza dell’apparato militare nel Governo civile. Anche dodici ministri, alleati di Hamdok, hanno rassegnato le dimissioni per ribellarsi alla nuova collaborazione. L’Associazione dei professionisti sudanesi, già protagonista nella rivolta contro l’ex Presidente al-Bashir, sta guidando le nuove proteste, le più grandi dal 2019. I militari continuano però a reprimere le manifestazioni con la forza e con l’utilizzo di gas lacrimogeni.
Alessandra De Martini
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