Hotspot – È uno dei più grandi Paesi africani, dilaniato da decenni di sanguinose guerre civili e dalle sempre crescenti proteste volte a mettere in discussione l’autorità del regime dittatoriale di Omar al-Bashir.
UN ENORME AGGLOMERATO DI CULTURE
Al crocevia tra Nord Africa e Africa subsahariana si trova quello che, fino a pochi anni fa, era, di fatto, il Paese più grande del continente africano: il Sudan (dall’arabo Bilad al-Sudan: paese degli uomini neri). Data la considerevole estensione geografica (1.886.068 km2), il Sudan confina con un gran numero di Paesi: a nord con l’Egitto, a ovest con Ciad e Libia, a est con Eritrea ed Etiopia, a sud con Repubblica Centrafricana e Sud Sudan. Quest’ultimo è il risultato della secessione delle regioni del Sud, ratificata, dopo un conflitto lungo e sanguinolento, nel 2005 e ufficializzata nel 2011 in seguito a un referendum. La capitale, Khartoum, si trova alla confluenza tra Nilo Bianco e Nilo Blu e rappresenta uno dei più importanti porti del Mar Rosso. Fino al 1956, anno in cui ha ottenuto l’indipendenza, il Sudan era una colonia inglese. Oggi è una Repubblica federale, dove vige la Sharia (legge islamica), introdotta nel 1983 dal regime di Ja’far al-Nimeyri.
IL REGIME DI OMAR AL-BASHIR
Pur essendo riconosciuto, formalmente, come una repubblica, da trent’anni il governo del Sudan è saldamente nelle mani di Omar al-Bashir, che ha conquistato il potere nel 1989 con un colpo di stato e, dal 1993, ha assunto la carica di Presidente. A partire dal 2009, su al-Bashir pende una condanna (ratificata nel 2015) della Corte Penale Internazionale che gli attribuisce la responsabilità del genocidio avvenuto durante il conflitto, mai realmente sopito, del Darfur. Nel 2010, al-Bashir e il partito di maggioranza, il National Congress Party (NCP), hanno vinto le prime elezioni multipartitiche del Sudan, marginalizzando i principali avversari: il Democratic Unionist Party (DUP) e il National Islamic Front (NIF). Le opposizioni e gli osservatori internazionali sono concordi nell’affermare che la schiacciante maggioranza ottenuta (94,5% dei voti) sia frutto di brogli e intimidazioni.
UN PAESE PERENNEMENTE IN RIVOLTA
Il Sudan è stato teatro da due sanguinose guerre civili: la prima si è protratta dal 1955 al 1972 e la seconda dal 1983 al 2005. Il referendum del 2011 ha sancito l’indipendenza del Sud Sudan, ma non ha sopito del tutto gli attriti tra il Nord e il Sud. Le radici del conflitto affondano nel passato coloniale del Sudan. Il governo britannico, tramite la tattica del divide et impera, esacerbò le rivalità tra le regioni settentrionali, arabe musulmane, e quelle meridionali, cristiano-animiste. Oltre alle questioni etnico-religiose, uno dei principali motivi di scontro è da sempre lo sfruttamento del petrolio. Attualmente il Sud Sudan possiede il 75% delle risorse petrolifere che il Sudan, in seguito alla secessione, è costretto a importare per soddisfare il proprio fabbisogno energetico. L’aumento dei prezzi del carburante è stato uno dei motivi scatenanti delle proteste che hanno scosso il Sudan nel settembre 2013, ma che in realtà erano cominciate nel 2011 e che rientrano nell’ondata di agitazioni meglio note come primavere arabe. L’Intifada del Sudan – questo il nome dei moti che hanno sconvolto il Paese tra il 2011 e il 2013 – ha avuto il pregio di dimostrare quanto l’autorità di al-Bashir, benché indiscussa, sia sempre più debole e quanto il governo centrale sia scollato dalle reali istanze espresse dalla popolazione, surclassato in termini di autorevolezza dalle diverse autorità locali, tribali e religiose, che da più parti cercano di far sentire la propria voce.
Caterina Pucci
Torna allo speciale “Crisi in Sudan”
Le immagini sono state inviate alla redazione da fonti locali