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Il caso Sudan: l’Italia muore (anche) di indifferenza

In Sudan sono in corso vaste proteste contro le politiche economiche del Governo: in meno di una settimana, i morti sarebbero già un centinaio, e gli arrestati più di 700, con il Paese che è rimasto isolato da internet fino a venerdì. In Italia, però, tranne alcune testate giornalistiche, nessuno ne parla e la maggior parte dell’opinione pubblica resta all’oscuro o disinteressata. Perché? Questo è davvero l’atteggiamento col quale pretendiamo di affrontare le sfide del XXI secolo?

 

Che cosa sta accadendo in Sudan? Niente, secondo gli italiani. Dall’inizio della settimana, il Paese è attraversato da duri scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, con un numero non ancora chiaro di vittime civili che potrebbe oscillare attorno a 100. Le proteste sono esplose a Khartoum e nelle regioni centrali sudanesi in seguito all’imposizione di tagli ai sussidi per il carburante, misura che giunge in un periodo di profonda crisi economica e politica. La situazione è stata aggravata dal fatto che da mercoledì a venerdì l’accesso a internet è stato interrotto in tutto il Sudan, mentre esercito, polizia e bande di criminali assoldati procedevano ad atti di violenza e a oltre 700 arresti. Eppure, nei telegiornali italiani non si è avuto alcun approfondimento. Tutt’al più, un breve passaggio, ma in molti casi non è stata neppure presentata la notizia.

 

Immagini dagli scontri nei pressi di Khartoum
Immagini dagli scontri nei pressi di Khartoum (immagine da Twitter)

Su varie testate giornalistiche cartacee e online, invece, il tema è stato affrontato diffusamente, con aggiornamenti e analisi puntuali già dalle prime ore delle rivolte. Tuttavia, consultando “Google News”, venerdì 27 alle ore 19,30 si notava che i disordini in Sudan comparivano addirittura dopo la notizia dell’emergenza dei calabroni killer in Cina – la stessa Cina che, secondo alcune indiscrezioni, avrebbe collaborato all’oscuramento di internet voluto da al-Bashir. Nel nostro Paese, nel quale mediamente si legge poco, scegliere di non mostrare una notizia in televisione significa lasciare che per molti italiani essa non esista. Lo so: errore nostro, giacché dovremmo leggere di più e seguire con maggiore attenzione la politica estera. Vero è anche, però, che non si può da un lato riversare tutta la colpa solo sulle cattive abitudini degli italiani, e dall’altro decidere aprioristicamente che cosa possa interessare all’opinione pubblica, magari cedendo i minuti che sarebbero sufficienti per introdurre la questione sudanese all’ennesima notizia sulla Casa reale britannica. Altrimenti, si rischia di comportarci allo stesso modo di coloro che predicano un ritorno dell’Italia nel Mediterraneo, ma non comprendono che la sicurezza del mare nostrum comincia ormai dalla regione sahelo-sahariana, nel pieno dell’Africa.

 

Tornando al Sudan, mancava qualche minuto al tramonto di venerdì quando ho ricevuto una mail molto breve, in un inglese stentato:

 

Ciao Beniamino. Fa’ sapere in Italia che forse domani potremmo essere morti. Ho paura, ma combatto per il Sudan. Non avrò internet fino a domani. Insha’Allah. Che Dio ti benedica. I.

 

Durante tutto il giorno, tramite l’hashtag #SudanRevolts si poteva seguire su Twitter cosa stesse accadendo nel Paese, senza però avere la possibilità di discernere il vero dal falso o l’informazione accurata dalla notizia approssimativa. Si doveva andare per tentativi, anche perché le forze di sicurezza sudanesi avevano posto sotto controllo addirittura alcune redazioni di testate internazionali. In precedenza, la mia fonte aveva risposto sinteticamente a una serie di messaggi che avevo inviato:

 

Hanno riempito la strada di lacrimogeni (made in China?) e stanno sparando ad altezza d’uomo. Internet difficile. I..

 

Più tardi mi aveva nuovamente contattato:

 

Sto nascosto con altri per evitare i lacrimogeni. Sembra che la polizia stia portando via gruppi di persone, ma non ho una buona visuale. Non dire chi sono e dove sono. I..

 

Sembrano messaggi da spy-story, però questo è il Sudan oggi, ossia proprio come potrebbe essere domani e come era ieri, quando in Darfur morivano 400mila persone. Non possiamo restare nel silenzio nel quale noi stessi spesso ci barrichiamo, preferendo la pigrizia intellettuale e l’ignavia al punto da non porci nemmeno più il problema della nostra posizione nel mondo in quanto esseri umani. L’assenza di strategia è divenuta ormai la nostra strategia: come cavalli da battaglia ci imponiamo dei paraocchi perché, consapevoli della mischia intorno a noi, preferiamo non vedere i combattimenti circostanti, in nome di un quieto vivere che non potrà mai esistere fintanto che propenderemo per l’inerzia dell’inconsapevolezza. In sostanza, non possiamo aspettare che una notizia arrivi al telegiornale delle 20,00, ma dobbiamo avere il coraggio di restare sempre informati, andando a scavare anche laddove non avremmo mai pensato, per intraprendere un percorso – faticoso e doloroso – di conoscenza, che ci connetta alla grande vicenda umana.

 

Spari sulla folla a Khartoum
Spari sulla folla a Khartoum (immagine da Twitter)

In Sudan è in atto un massacro, o, meglio, prosegue un massacro che dura da anni, proprio a due passi da casa nostra. Il problema, ovviamente, è che Khartoum è un nodo cruciale nell’arco di tensione che corre dal Vicino Oriente all’Africa occidentale, un attore fondamentale per la stabilità dell’area sahelo-sahariana governato da un Presidente ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e inserito in un delicato intrico di relazioni, in particolare con la Cina.

 

Chi ha lo sguardo sul continente nero sa che, nonostante le statistiche sulla riduzione del numero dei conflitti, la situazione continua a essere tragica, soprattutto a causa del riassetto degli equilibri sociali, politici ed economici, nonché per l’emersione di fenomeni e dinamiche del tutto mutati già rispetto a cinque anni fa. Un membro dell’opposizione eritrea ha scritto in merito parole lapidarie:

 

«Al-Shabaab che può colpire ormai senza problemi in Uganda e Kenya, la morte in Etiopia di Zenawi, le tensioni intorno al ‘pazzo’ Afewerki e le proteste contro al-Bashir sono tutti segnali precisi. Qualcosa in Africa orientale si sta muovendo».

 

Se vogliamo che l’Italia e noi italiani riusciamo ad affrontare le sfide della grande riorganizzazione dei poteri mondiali, entrando a tutti gli effetti nel XXI secolo, dobbiamo innanzitutto cominciare a sfruttare la posizione eretta per guardare oltre l’orizzonte, informandoci sulla politica estera (cioè quello che accade attorno a noi) e impegnandoci affinché l’Unione Europea riesca a costruire una reale linea comune. Trascurare le relazioni internazionali è un lusso che non siamo in grado di permetterci e questa cognizione anima e ispira il Caffè, una redazione composta da persone che amano tentare di capire la realtà geopolitica. Altrimenti possiamo sederci comodamente a osservare la Storia che ci scorre davanti agli occhi sferzandoci col proprio vento, come un treno con l’erba lungo i binari. In tal caso, però, impariamo sin d’ora il buon gusto della riservatezza, poiché se si resta inerti e ci si disinteressa del mondo, qualsiasi polemica sulle giuste ragioni degli italiani non potrà che essere derubricata a brusìo.

 

Beniamino Franceschini

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Beniamino Franceschini
Beniamino Franceschini

Classe 1986, vivo sulla Costa degli Etruschi, in Toscana. Laureato in Studi Internazionali all’Università di Pisa, sono docente di Geopolitica presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Pisa. Mi occupo come libero professionista di analisi politica (con focus sull’Africa subsahariana), formazione e consulenza aziendale. Sono vicepresidente del Caffè Geopolitico e coordinatore del desk Africa.

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