Il Regno hashemita di Giordania ha confini tra i più caldi al mondo, eppure non se ne parla. Sulla situazione interna le informazioni sono altrettanto scarse, anche se le conflittualità etniche, economiche e sociali non mancano. Cosa si cela dietro tale silenzio e a chi conviene mantenere un così basso profilo?
A CHI CONVIENE IL ‘LOW PROFILE’ – Fin dalla trasformazione dell’Emirato di Transgiordania in Regno di Giordania nel 1946, il Paese ha occupato un ruolo marginale nell’analisi geopolitica sul Medio Oriente. La comunità internazionale ha sempre considerato la Giordania una sorta di provvidenziale contenitore per rifugiati palestinesi ieri, e per palestinesi, iracheni e siriani oggi. Si è consci dell’aiuto umanitario fornito a questi popoli nel Paese dallo United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) e dalla United Nation Relief and Works Agency for Palestine refugees in the Near East (UNRWA), ma sulle sorti dei rifugiati di lungo periodo e dei giordani di origine straniera si è sempre preferito non indagare a fondo.
All’estero il disinteresse per la situazione giordana e per l’impronta antidemocratica che a più riprese ha caratterizzato l’operato della Casa reale è dettato da due fattori fondamentali. Il primo è l’insostituibile ruolo giocato dalla Giordania come Paese d’accoglienza per i profughi; il secondo sono i rapporti commerciali e diplomatici storicamente ottimi tra Monarchia e Occidente. Tra gli Stati Uniti e il Paese mediorientale sono da sempre in vigore importanti accordi economico-finanziari, e solo nel 2012 gli USA hanno elargito alla Giordania oltre 663 milioni di dollari. La partnership, però, è anche militare: il Regno ha per esempio contribuito a creare la no-fly zone sulla Libia e ha fornito personale medico e unità per lo sminamento in Afghanistan e Iraq. Dal 1994, anno in cui la Giordania è stata il secondo Paese arabo a siglare un accordo di pace con Israele, i rapporti sono ulteriormente migliorati.
Se oltreconfine si ha dunque interesse a sorvolare sulle pagine oscure della Monarchia, è all’interno che mantenere un basso profilo e lasciare il Paese lontano dall’occhio internazionale conviene ancora di più. Abdullah II, salito al trono nel 1999 alla morte del padre Hussein, ha aumentato gli sforzi di quest’ultimo nel ricercare la discrezione sulla propria politica interna ed estera.
Le difficoltà in realtà sono molte e, alla luce dell’ultimo triennio mediorientale, si può individuare più di una analogia con le precondizioni che altrove hanno condotto alle “Primavere arabe”.
Tassi di disoccupazione in crescita, contestazioni all’operato dei Governi succedutisi negli ultimi anni e persino alla natura intrinseca del potere monarchico, tensioni etniche e divario economico e culturale tra élite privilegiata e popolo sono alcuni dei fattori potenzialmente destabilizzanti nel Regno, le cui dinamiche interne sono peraltro strettamente connesse con le ambigue posizioni della Casa reale in politica estera.
CRITICITÀ INTERNE – Le liberalizzazioni economiche attuate su un tessuto sociale tanto complesso, avviate da Hussein nel 1988 e continuate dal figlio fino a oggi, hanno acuito il divario tra l’élite urbana benestante e occidentalizzata e il resto della popolazione. La legalizzazione dei partiti politici del 1992, apparente apertura democratica, è stata invece uno strumento per rinforzare legami informali e alleanze tribali che hanno accresciuto corruzione e nepotismo. Oggi la popolazione ha la crescente percezione di una Monarchia che per rimanere al potere elargisce favori e compra fedeltà, di un servizio segreto simile al Mukhbarat di Mubarak, la famigerata intelligence di cui si parlava soprattutto al tempo dell’ex-rais, ma, soprattutto, che far sentire la propria voce non sia impossibile.
PALESTINESI DI GIORDANIA – Il problema giordano per eccellenza è quello dei palestinesi nel Paese. La popolazione palestinese in Giordania è costituita da oltre 330mila profughi e da circa 2 milioni di aventi status di rifugiati, oltre che da centinaia di migliaia di giordani di origine palestinese.
Con l’occupazione da parte della Giordania della West Bank nel periodo 1948-1967, molti palestinesi riuscirono a ottenere la cittadinanza giordana. A ciò seguì una tensione crescente tra Giordania e comunità palestinese che culminò nel cosiddetto Settembre Nero del 1970, quando il re Hussein, dopo ripetuti scontri, espulse i militanti dell’OLP accusati di voler rovesciare la Monarchia.
Da quel momento il conflitto è latente e palpabile soprattutto dal punto di vista economico e occupazionale. I giordani “purosangue” mantengono le posizioni statali di maggior prestigio grazie a una fitta rete di wasta, connessioni clientelari tra individui di lontana origine affine. Parallelamente, i giordani di origine palestinese sono relegati al settore privato, nel quale sopravvivono solo accettando la corruzione di polizia e funzionari locali.
Il silenzio è pressoché totale anche sui rapporti emanati da Human Rights Watch, che illustrano il caso di 2.700 giordani di origine palestinese privati arbitrariamente della cittadinanza tra il 2004 e il 2008, ma si ritiene che tale pratica sia continuata almeno per tutto il 2009.
L’AMBIGUITÀ SU SIRIA ED EGITTO – Sulla Siria la posizione di Abdullah II è, comprensibilmente, di cauta preoccupazione. In questi ultimi tre anni il Re si è limitato a condannare la violenza della repressione di Assad, senza però schierarsi sulla linea decisamente interventista dell’Arabia Saudita. Il ministro degli Esteri siriano Faisal al-Mekdad ha infatti intimato più volte ai Paesi vicini (Israele, Turchia e Giordania) di astenersi dall’azione, pena risposte tempestive da Damasco.
I rifugiati siriani in Giordania sono attualmente oltre 550mila, e questo rappresenta un’ulteriore preoccupazione per un Paese di poco più di sei milioni di abitanti. Il fatto che lo scorso 6 novembre il tribunale di Amman abbia condannato due giordani con l’accusa di essersi infiltrati in Siria per combattere coi ribelli appare come uno dei disperati tentativi giordani di non uscire dalle grazie di Assad.
Anche sull’Egitto Abdullah II è riuscito a non schierarsi mai apertamente. All’inizio di ottobre, però, il Presidente ad interim egiziano Adli Mansur è stato ricevuto dal primo ministro giordano Abdullah al-Nasur, incontro subito seguito da quello con i reali sauditi, secondo un itinerario che suggerisce si sia trattato di una serie di ziyarat, visite diplomatiche, tra le cancellerie favorevoli ai militari.
La riduzione degli approvvigionamenti di gas egiziano dovuta agli attacchi ai gasdotti nel Sinai attuati da gruppi tribali, criminali locali e cosiddetti jihadisti negli ultimi anni sta inoltre forzando la Giordania a modificare le proprie politiche energetiche. Il ministro dell’Energia Mohamed Ahmed ha dichiarato che verrà presto annunciato il nome della compagnia russa alla quale verrà affidata la costruzione dei primi reattori nucleari. Una maggiore militarizzazione della Penisola del Sinai, zona separata dalla Giordania da un altrettanto preoccupato Israele, viene dunque vista di buon occhio da Amman come possibilità di riportare l’ordine in un’area indispensabile per evitare di prosciugare le casse dello Stato con nuovi progetti energetici.
Resta da valutare se la Casa reale riuscirà a mantenere rapporti tanto distesi con i vicini e a scoraggiare ogni forma di dissenso interno senza perdere la propria nomea internazionale, non del tutto giustificata, di Stato moderno e moderato.
Sara Brzuszkiewicz