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La guerra e la Grande Guerra: storia, geopolitica e strategia

La Grande Guerra rappresenta un appuntamento unico della Storia: la globalità degli aspetti coinvolti non riguarda solo quelli militari, perché si trattò di una ‘guerra totale’, una guerra cioè che coinvolse società intere in tutta la loro articolazione. Tuttavia, per capirlo appieno, è necessario partire dallo stato dell’arte della guerra in tutte le sue implicazioni all’inizio del conflitto, considerando che la forza militare è da sempre un fattore geopolitico essenziale, ma anche la risultante di numerosi altri fattori.

UNA SEMPLICE DENOMINAZIONE – Una prima riflessione geopolitica sulla Grande Guerra dovrebbe precisare che la definizione ‘Prima Guerra Mondiale’ non appare in realtà del tutto corretta: le cause del conflitto furono circoscritte come i campi di battaglia dove si consumarono gli scontri più sanguinosi. Essi si svolsero quasi tutti in Europa, dove maggiormente si concentrò la distruzione degli eventi bellici: lo schieramento delle potenze impegnate non corrispose quasi mai alle effettive linee di demarcazione degli imperi, delle potenze europee o dei paesi extraeuropei con ambizioni nazionali di autogoverno, di espansione o conquista. L’affermazione più diffusa alla base della definizione corrente, cioè che per la prima volta un conflitto si estese su scala ‘mondiale’, diventa pertanto conseguenza del conflitto stesso e non ne spiega le ragioni profonde che sono e restano europee, maturate tra le pieghe dei rapporti tra le grandi potenze nel mezzo secolo precedente.

CROCEVIA DELLA STORIA –  Stabilito il carattere europeo, la guerra ha quindi cause da ricercare sia nel breve periodo, ovvero in alcuni fatti di poco anteriori al 1914, sia nel vero e proprio ‘assetto geopolitico’ che non era frutto di pochi decenni di vita politica e diplomatica, ma almeno di un secolo di storia europea. In questa direzione si incontrano non solo le interpretazioni storiche di derivazione marxista («le contraddizioni dell’imperialismo» o «L’imperialismo fase suprema del capitalismo»), ma anche tutte le altre teorie basate sulla responsabilità del militarismo tedesco dopo la guerra del 1870, sul nazionalismo che animava molti paesi europei o sulle sole cause economiche: in tutti i casi si tratta di rappresentazioni delle cause che vanno abbastanza indietro nel tempo. La Grande Guerra rappresenta in conclusione un crocevia unico nel quale si intrecciano configurazione della società, sviluppo economico e industriale, sentimenti collettivi, fattori demografici, cultura e istruzione, contraddizioni politiche e comunicazioni di massa ed è evidente che questi processi – in senso geopolitico –  erano iniziati molto prima del 1914 e cioè almeno a partire dalla Rivoluzione francese, dalla rivoluzione industriale e dalla nascita dello stato-nazione.

LE RIVOLUZIONI MATURANO – Considerando il rapporto tra guerra e relazioni internazionali o tra guerra e politica come si era andato strutturando in Europa a partire dal congresso di Vienna, appare evidente come la guerra del 1914 non sia paragonabile ad alcun conflitto precedente. La coscrizione obbligatoria era paradossalmente iniziata da una rivoluzione politica democratica quale la rivoluzione francese. La rivoluzione industriale aveva reso possibile la produzione di armamenti su scala mai vista e una terza rivoluzione nelle comunicazioni e nei trasporti aveva reso possibile la diffusione di notizie in contemporanea e il trasporto di masse ingenti per mezzo delle reti ferroviarie. Nella Grande Guerra tutti questi fattori operarono simultaneamente superando la ‘guerra ad obiettivo limitato’ tipica del secolo precedente. Le guerre passate infatti non erano mai state ‘totali’ in quanto non avevano mobilitato tutto il complesso delle risorse della nazione, né avevano imposto una guida centralizzata con poteri straordinari, né avevano abbattuto le tradizionali barriere sociali tra militari e civili. L’obiettivo finale della guerra alla sua conclusione fu inoltre l’«unconditional surrender», ovvero la guerra di annientamento, elemento sconosciuto nelle guerre della «bilance of power» in cui si procedeva per aggiustamenti progressivi che non alteravano l’equilibrio globale.

FORZE ARMATE E NAZIONI  – «Aux armes, les citoyens!» era stato il grido delle forze armate francesi dopo Valmy nel 1794, ma vent’anni dopo era stata la Prussia sconfitta a mobilitarsi contro i francesi attraverso la coscrizione obbligatoria e la militarizzazione del Paese_ (1813). Lo stesso principio era stato ribadito nel 1870 da ambo le parti e nel 1914 ormai tutti gli eserciti e le marine da guerra erano basati sulla coscrizione obbligatoria, con la vistosa eccezione dell’Inghilterra. Tutti – russi compresi – dilatarono a dismisura le strutture militari, con i soli vincoli dello sviluppo demografico e dei bilanci della difesa, perché nei paesi democratici le opposizioni parlamentari si battevano infatti contro le spese militari. Ne derivò uno sviluppo assai ineguale delle rispettive forze armate: la popolazione francese era rimasta pressoché stabile (dal 1872 al 1914 da 38 milioni a 39,6); rispetto l’aumento della Francia quella russo era stato però cinque volte superiore, quattro volte l’inglese, tre volte il tedesco e due volte l’italiano. Poiché però a tali sviluppi in campo demografico non era seguito un analogo sviluppo economico direttamente proporzionale, né un aumento degli armamenti negli stessi termini, la disuguaglianza dei diversi sistemi militari sotto il punto di vista dell’efficienza risultò ben presto evidente. Già durante la battaglia di Tannenberg e dei laghi Masuri nell’agosto 1914, gli alti comandi russi non si preoccuparono eccessivamente che alcuni reparti affluissero in linea senza fucili: dopo ogni combattimento la preoccupazione era quella di recuperare le armi dei caduti e dei feriti per darle ai reparti di rincalzo prima disarmati.

MILIONI E MILIONI DI EUROPEI –  Già tra l’agosto e il settembre 1914 la Germania aveva impegnato sul fronte occidentale solo per l’esecuzione del “piano Schlieffen” più di un milione di soldati: in breve nei primi mesi del 1915 divennero più di due milioni e mezzo. Nonostante il sistema della mobilitazione austriaca fosse più lento, nello stesso periodo il numero dei mobilitati all’interno dell’impero degli Asburgo raggiunse il milione e mezzo di uomini. L’impero russo era arrivato a tre milioni (sebbene avesse la possibilità teorica di arruolarne sei, ma non di armarli completamente) e la sola Francia a due. L’Inghilterra, sebbene avesse atteso il 1916 per attuare la coscrizione obbligatoria, alla conclusione della guerra aveva mobilitato ben cinque milioni di uomini. Sebbene di simili calcoli istintivamente si tenda a dubitare per eccesso, o talvolta nascondano un’ingenua faciloneria, la cifra di quaranta milioni di europei mobilitati sembra invece abbastanza ragionevole. Da questi dati si comprendono altri due aspetti: l’alto livello di coinvolgimento di tutti gli aspetti della vita sociale ed economica europea e l’elevato numero di caduti in guerra.

TOTAL WAR DEMANDS TOTAL HISTORY Questi sono solo alcuni dei motivi per i quali la Grande Guerra merita ancora oggi la nostra attenzione, ma dobbiamo anche ricordare che questa visione globale è tutto sommato abbastanza recente e risale più o meno alla metà degli anni Ottanta, con la pubblicazione del libro dello storico inglese Trevor Wilson, The Myriad Faces of The War, che sottolineò appunto l’estensione pervasiva di tutti questi aspetti e il fascino che tuttora esercitano su di noi. Anche una semplice lettura della Grande Guerra è quindi molto complessa, né è possibile immaginare quali altri campi di riflessione si aprano ancora oggi.

LA SORPRESA TECNICA – Scrivendo di guerre in generale e di Grande Guerra in particolare, Raymond Aron all’inizio degli anni Sessanta la descrisse essenzialmente come «una sorpresa tecnica». In pratica gli effetti combinati delle armi automatiche, dell’artiglieria pesante e delle trincee coperte e protette da reticolati conferirono una superiorità tattica a chi si poneva sulla difensiva. In altre parole il difensore riusciva a tenere testa ad ingenti forze che non disponevano di copertura per avanzare, né di altri mezzi per progredire sul terreno: la manovra era diventata impossibile. Il passaggio dalla difensiva tattica a quella strategica fu quindi relativamente breve. Ad un certo punto dal mare del Nord alla Svizzera si stese un’unica linea ininterrotta di trincee ed altrettanto avvenne più o meno sul fronte orientale, sebbene lo spazio dal mar Baltico al mar Nero fosse più esteso e non fu mai possibile saturarlo di uomini e mezzi come avvenne al contrario in Occidente.

UNA PANOPLIA RIDOTTA, MA MICIDIALE – Per capire questo enorme stallo a pochi mesi dallo scoppio della guerra bisogna considerare – a grandi linee – quali fossero le principali armi in dotazione ad un esercito da campagna tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX. La panoplia, tutto sommato, era abbastanza ridotta: un fucile da fanteria, una mitragliatrice e un pezzo d’artiglieria da campagna. Le principali innovazioni di queste armi di base avvennero negli anni immediatamente precedenti e continuarono nel corso della guerra, durante la quale l’esperienza dei combattimenti ne trasformò e migliorò l’efficacia, senza tuttavia modificarne le caratteristiche essenziali. Un fuciliere alla battaglia di Solferino avrebbe potuto sparare solo restando in piedi o in ginocchio a circa 600 metri, mentre un fante della Grande Guerra avrebbe potuto colpire il nemico restando disteso o protetto da una trincea a più di 2000 metri sparando nello stesso tempo un numero di colpi molto superiore. A partire dalla seconda meta del secolo precedente le principali invenzioni che avevano rivoluzionato gli armamenti erano state poche, fondamentalmente tre, ma rivoluzionarie: la polvere da sparo senza fumo, il controllo del rinculo delle artiglierie e l’arma automatica, in grado cioè di sparare in successione numerosi colpi senza essere ricaricata ogni volta.

LA POLVERE SENZA FUMO E L’ARMA AUTOMATICA – Il campo di battaglia ottocentesco, oltre ad avere ancora come protagonista principale un reparto che sparava inquadrato su linee, era perennemente avvolto dalle nubi di fumo provocate dalla polvere nera, ovvero la comune polvere da sparo. Era necessario quindi eliminare le nubi, ma era anche necessario trovare una polvere che non lasciasse troppi residui nelle canne dei fucili o dei cannoni rallentandone la ricarica. La soluzione fu trovata nella nitrocellulosa contenuta in un bossolo metallico che portò anche ad un altro vantaggio: al contrario della polvere nera, essa produceva gas bruciando in maniera progressiva, ma soprattutto ‘calcolabile’, con meno residui e imprimendo al proiettile maggiore velocità. Il cambiamento di questo elemento permise la realizzazione dei congegni più sofisticati per costruire le prime mitragliatrici. La nascita della nuova polvere e della prima mitragliatrice avvengono infatti a poca distanza: la polvere nel 1884 e il perfezionamento della mitragliatrice Maxim nel 1885.

IL CANNONE DA CAMPAGNA – Il problema dell’artiglieria da campagna era che, a causa del rinculo del cannone dopo ogni colpo sparato, a forza di braccia gli artiglieri dovevano riportarlo in posizione e questo ne limitava l’azione sia dal punto di vista della quantità dei colpi che della precisione. Accanto o sotto la bocca da fuoco vennero aggiunti dei cilindri sui quali poggiarla, ma in grado nello stesso tempo di riportarla in posizione assorbendo il rinculo con un potente sistema elastico: aumentarono così il numero di colpi che si potevano sparare nello stesso arco di tempo e la precisione. Benché oggi queste trasformazioni possano sembrare banali, la loro importanza fu colta dappertutto e nell’arco di pochi anni si imposero in quasi tutti gli eserciti europei: a queste trasformazioni però alcuni stati maggiori si opposero, non tanto non sottovalutandole in sé, ma piuttosto rendendosi conto dell’enormità delle trasformazioni e dell’ampiezza della nuova organizzazione necessaria. Altro cambiamento fondamentale fu di tipo industriale-produttivo: in passato i vecchi arsenali regi, cioè le fabbriche d’armi direttamente controllate dai militari, erano bastati a produrre gli armamenti richiesti, ma nel momento della trasformazione fu necessario ricorrere all’industria privata. Le nuove tecnologie necessarie andavano dalla chimica alla metallurgia ed erano in mano a imprenditori privati, mentre i costi di ammodernamento dei vecchi arsenali risultavano ormai insostenibili per i pubblici erari.

L’AMMIRAGLIO FISHER E LA MARINA INGLESE – Il primo paese dove si verificò questo fenomeno, fu l’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento. Fu infatti l’ammiraglio Fisher, nel 1886 divenuto direttore generale dell’artiglieria navale ad ottenere che fosse acquistato direttamente da privati tutto ciò che non fosse possibile ottenere rapidamente e a prezzi competivi dagli arsenali militari. In realtà, negli anni precedenti, si era verificata anche una grave crisi della cantieristica inglese la cui soluzione furono appunto le commesse pubbliche. A parte l’aumento del bilancio della marina, poco gradito in sé al parlamento, Fisher si trovò a lottare anche con i liberali, convinti del fatto che, se l’Inghilterra avesse aumentato le spese per la marina, anche altri paesi lo avrebbero fatto insidiando alla fine la supremazia inglese sui mari. In questo modo erano sorti in effetti due problemi: il complesso militare-industriale, foriero di influenze sulla politica estera britannica e la corsa agli armamenti navali delle altre potenze, dalla Francia alla Germania e dalla Russia al Giappone. Fisher, dopo aver fatto realizzare le prime grandi corazzate ai primi del Novecento, rimase al suo posto di Primo lord dell’ammiragliato fino alla battaglia navale dello Jutland nel 1915.

In breve sul continente europeo si affermarono quindi pochi grandi produttori di armamenti i cui nomi restano ancora oggi emblematici: Krupp in Germania, Skoda in Austria-Ungheria, Schneider-Creusot in Francia e Vickers in Inghilterra. Importanti, ma di entità minore, sono da ricordare anche le officine Putilov in Russia e Fiat e Ansaldo in Italia. Tutti questi complessi industriali, pur avvantaggiati in patria da politiche protezionistiche, trovarono opportunità di sviluppo nella produzione di armamenti che, una volta saturate le forze armate nazionali dei Paesi di origine, rivolsero la l’attenzione al di fuori del continente europeo nei confronti degli stati che richiedevano armi nuove e indubbiamente in questo ambito prima del 1914 non ci fu mai crisi. Nello stesso tempo però, aumentando il peso della tecnologia, ma restando il livello generale pressoché costante – nel senso che nessun paese deteneva una superiorità assoluta – di fatto aumentò l’instabilità complessiva, nel senso che nessuna arma in sé era in grado di garantire la sicurezza assoluta o la supremazia.

Giovanni Punzo

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Giovanni Punzo

Giovanni Punzo (Monaco di Baviera, 1957), dopo la laurea in Scienze politiche (ind. internazionale) a Padova, è stato ufficiale degli alpini per tre anni in Alto Adige e si è specializzato in Diritti Umani. Le passioni per la geopolitica e gli alpini si sono curiosamente incrociate quando è stato richiamato in servizio partecipando a due missioni  in Bosnia e Kosovo tra il 2001 e il 2004 occupandosi di popolazione civile e psyops. Oltre a un breve saggio sul ‘decennio balcanico’ (Il paradigma balcanico. Un conflitto determinante, Cleup) ha scritto anche un libro di ricordi e riflessioni sulle due missioni (Dobro. Storie balcaniche, Cierre).

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