lunedì, 16 Dicembre 2024

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"L'imparzialità è un sogno, la probità è un dovere"

Associazione di Promozione Sociale | Rivista di politica internazionale

… E ora, quali scenari?

Dopo lo speciale “I perchè del Maghreb in rivolta”, il Gen. Cascone ci ha concesso un'intervista, in cui a 360 gradi delinea qualche ulteriore punto oscuro e prova ad ipotizzare scenari per il futuro, ovviamente per il breve periodo. Quali sviluppi per la Tunisia? Quale ruolo per i militari e i Fratelli Musulmani in Egitto? La Libia sarà un nuovo Afghanistan? Come affrontare il tema immigrazione? Cerchiamo di fare luce su queste e altre questioni

Per cominciare, Gen. Cascone, sussistono differenze tra le varie rivoluzioni nei Paesi rispettivamente a ovest e a est del Nilo?

Parlerei più genericamente del “mondo arabo” che notoriamente comprende le seguenti aree: Maghreb (occidente), Mashraq (oriente) entrambe rispetto alla valle del fiume Nilo, la citata “valle” (Egitto, Sudan), il Corno d’Africa (Somalia, Gibuti), la Penisola Arabica; tutto questo per non articolare eccessivamente il tema in esame.    

Premesso che in tutti i Paesi arabi esistono problemi di democrazia e di distribuzione della ricchezza, abbinate all’alto tasso di disoccupazione giovanile e alla corruzione endemica (si parla infatti di “caduta del muro arabo”, in analogia a quello di Berlino), pensare che le rivolte siano state determinate soltanto da questi fattori è un po’ riduttivo.

L’effetto scatenante, almeno per quanto riguarda il nord-Africa e alcuni altri Paesi delle zone indicate, è un “combinato composto” tra le difficoltà sociali interne: ci si riferisce sia alla mancanza di libertà elementari sia alle aspettative che vengono oramai assimilate, attraverso l’utilizzo di mezzi di diffusione di massa (tv, satellitari, internet).

L’arabo medio vede, in tempo reale, quello che accade in un altro “mondo” a lui geograficamente vicino, mutua le situazioni che compara con quello che capita nel suo Paese e ne coglie motivi di rivalsa; nascono pertanto spinte sociali interne /spontanee dove una eventuale interferenza straniera, almeno nella fase iniziale, non sussiste.

Si hanno notizie di qualche spinta “esterna” a ciascun Paese che abbia fomentato o guidato la piazza? Qualcuno ha addirittura evocato la CIA…

La lunga mano della CIA sulle sorti di Mubarak e di Ben Ali appare un’illazione. È verosimile che i sommovimenti sociali nel nord-Africa abbiano colto tutti i Servizi di intelligence di sorpresa. Ben Ali, come Mubarak, era portatore di una politica amica dell’Occidente; ora il problema, anche per la CIA, è quello di far sì che questi Paesi rimangano nella sfera d’influenza dell’Occidente.

Quale sarà il ruolo dei militari in Tunisia ed in Egitto, rispettivamente nel dopo-Ben Ali e nel dopo-Mubarak?

Sicuramente, per la Tunisia e l’Egitto, il ruolo dei militari è stato centrale anche perché esiste in entrambi i Paesi una forte tradizione del ruolo di questa Istituzione nelle vicende politiche interne. Solo i militari, in questi due Paesi, potranno assicurare una transizione dei poteri relativamente incruenta, ma rimarrà anche immutato il loro potere contrattuale: il risultato finale potrebbe essere, come si dice comunemente, una “democratura”, democrazia più dittatura.

Saranno i militari a pilotare la transizione e ovviamente lo faranno indirizzandola verso soluzioni a loro favorevoli.

Mubarak proveniva dalla Aeronautica Militare, Ben Ali dai “Servizi”.

Per l’Egitto bisogna guardare con attenzione a Suleiman, il Capo dei Servizi: nell’ombra c’è ancora lui…lui ha l’esperienza e le qualità per il dopo – Mubarak, non il figlio Gamal.

In relazione agli sviluppi di situazione nei Paesi in esame, che livello di rischio è possibile attribuire al passaggio della situazione da una democratura ad un’altra democratura, anziché da una democratura alla democrazia, come dai programmi della “piazza”?

La “democratura” nei Paesi arabi è il prodotto della loro storia e quindi del loro background culturale. Non si può pensare che in questi Paesi possa attecchire improvvisamente una qualsivoglia forma di democrazia, se non a seguito di un percorso storico e sociale. Molti pensano che la democrazia sia un valore universale applicabile ad ogni realtà sociale: non è così! La democrazia non si esporta, come pensava Bush, ma si conquista; la sua eventuale applicazione sarà condizionata dalle realtà locali. Parlare di democrazia nel Maghreb o nel Mashreq è solo un esercizio semantico.

L’effetto domino che ha interessato il mondo arabo ha affrancato – almeno in prima istanza (ma non è detto che duri) – i Paesi dove ricorrevano le stesse situazioni sociali e politiche e che hanno dato corso alle rivolte: ne sono rimasti fuori alcuni regimi “legittimati” da discendenze religiose (gli alawiti in Marocco, gli hashemiti in Giordania), ovvero da sette religiose (i wahabiti in Arabia Saudita, gli ibadhiti in Oman, gli alawiti in Siria) oppure dove il livello di “internazionalizzazione” della società (s’intende l’accesso alle comunicazioni di massa) è molto basso (la Mauritania) .

Quali le possibili ragioni per la mancata candidatura di El Baradei alla carica di Presidente della Repubblica? E questo, anche in considerazione dell’invito dei Fratelli Musulmani a rappresentarli, nella fase di transizione e normalizzazione del Paese.

Baradei è stato lontano dalle vicende interne egiziane per molti anni; è tornato nel Paese, ha cercato un suo spazio politico, non ci è riuscito e si è defilato nella fase iniziale della rivolta ; non è da escludere che si candidi per le future elezioni presidenziali.

Come considera il peso politico dei Fratelli Musulmani nella situazione politica dell’Egitto post-Mubarak?

I Fratelli Musulmani sono una forza sociale (gestiscono innumerevoli organizzazioni caritatevoli) che ovviamente si può tramutare in una forza politica;

peraltro sono già una forza politica, presente nel Parlamento egiziano benché sotto denominazione diversa (lista “indipendenti”) e che abbiano la forza di condizionare il futuro politico del Paese, non vi sono dubbi.

Sono portatori di un Islam ortodosso, se pure addolcito da una visione strategica di respiro internazionale; al-Zawahiri, il braccio destro di Bin Laden, proviene da questa Associazione!

E ancora: Hamas è una costola palestinese dei Fratelli Musulmani; in Siria sono avversati, in Giordania sono invece in Parlamento: demonizzarne il ruolo non serve a niente! Anche in Europa abbiamo congregazioni cristiane ortodosse.

Il lato positivo dei Fratelli Musulmani risiede nella solidità del loro apparato (un vertice che decide e comanda) e nella razionalità della loro visione religiosa; questo sicuramente limita eventuali derive estremiste.

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Dopo Tunisia ed Egitto, si parla della Libia come di un nuovo Afghanistan: come vede la situazione e quali scenari individua dal suo punto di vista?

Per la Libia, l’essenza del potere non sono i militari; la forza di Gheddafi è legata ai Comitati Rivoluzionari e ai Servizi di Sicurezza. Le Forze Armate sono sempre state tenute ad un basso tasso di operatività perché Gheddafi ne temeva la pericolosità (lui che il colpo di stato lo aveva fatto, provenendo da quella struttura); si è affidato ai fini della sua sicurezza, alla Legione Islamica, fatta di mercenari, provenienti da Paesi limitrofi. Molti hanno sottovalutato o stanno sottovalutando il fatto che Gheddafi continui a mantenere il potere; lo esercita ovviamente in Tripolitania e nel Fezzan ed ha anche la forza potenziale di riprendersi il controllo di altre aree del Paese.

La forza che si contrappone oggi a Gheddafi non si ritiene di estrazione islamica; la dissidenza in Cirenaica parte da molto lontano: quella regione, che non ha mai riconosciuto a Gheddafi una connotazione nazionale, è rimasta legata ai valori della Senussia e quindi al regime monarchico che ne discendeva.

La politica di Gheddafi di “punire” la Cirenaica con scarsi investimenti ed infrastrutture, ne ha poi incrementato l’opposizione. Per il potere in Libia bisogna guardare alle cabile (le tribù): se si rivoltano (quantomeno le più importanti), Gheddafi perde il suo radicamento sul territorio.

Sul nostro Paese grava la minaccia della crescita dell’immigrazione clandestina, ben oltre le possibilità di accoglienza del nostro Paese. Come pensa si possa gestire questa grave crisi umanitaria?

La Libia ha costituito, negli ultimi anni, una rotta per l’emigrazione clandestina verso l’Europa: altrettanto non era possibile dalla Tunisia, a fronte dello specifico sistema repressivo di Ben Ali.

Gheddafi ha strumentalizzato ed enfatizzato la specifica tematica come elemento, talvolta, di ricatto verso l’Europa; il regime libico si è così assicurato una rendita finanziaria e politica. L’Italia, peraltro, ha firmato un accordo bilaterale con la Libia (non un accordo europeo: c’era già la Frontex).

L’emigrazione clandestina è oggi gestita da organizzazioni transnazionali; se si chiude una rotta, l’organizzazione ne apre un’altra: non è che s’interrompa il traffico, lo si orienta diversamente!

I dati riferiti ai clandestini rinchiusi  nelle carceri libiche indicano una quota di circa 15.000 (risalgono al 2008-2009) e non sono stati aggiornati da allora.

Prima della rivolta, l’emigrazione clandestina dalla Libia aveva raggiunto livelli macroscopici: solo il 15% dei clandestini, una volta arrivati in Italia, si fermava nel nostro Paese; il resto “transumava” in altri Paesi.

Da considerare altresì che la piaga dell’immigrazione clandestina è anche quella proveniente dall’Est europeo, anche se, per ragioni varie, si tende a demonizzare il “clandestino africano” che sicuramente ha minore capacità di inserimento, rispetto alle altre comunità di clandestini.

In sintesi, si fa fatica a pensare che la filiera dell’immigrazione clandestina possa “ripartire” dalla Libia, in assenza di una situazione politico-sociale adeguata: si tratta di un problema che, a mio avviso, dovrebbe coinvolgere l’intera Comunità europea e che in tale ambito dovrebbe trovare soluzione, senza delegarne la responsabilità al Paese la cui frontiera viene attraversata dal “clandestino”.

Dopo la Tunisia, l’Egitto e la Libia, si aspettano analoghe rivolte in altri Paesi del mondo arabo? Con quali conseguenze?

L’Algeria, che ha una situazione sociale esplosiva (peggiore forse di quella dell’Egitto e della Tunisia) a fronte di una “soddisfacente” scolarizzazione dei suoi giovani, si è sinora salvata dall’onda delle rivolte; il regime algerino, dopo le rivolte del FIS del 1990/91, ha acquisito un certo know-how sulla gestione di queste emergenze sociali.

Il “contagio rivoluzionario” che sta percorrendo il mondo arabo è positivo, se ci si limita ad una valutazione di merito sui diritti umani e sulla libertà di quei popoli; diventa ovviamente pericoloso in riferimento al parametro della stabilità.

E’ chiaro che in questi Paesi, dove la cultura della “ gestione del potere” si basa su esempi di prevaricazione e non di consenso, il risultato finale di queste rivolte può essere anche un’altra dittatura.

A questo punto però potrebbe valere un’altra considerazione: la politica estera di un Paese può essere basata sui principi o sugli interessi; generalmente prevale questa seconda opzione (il “pecunia non olet” di romana memoria) .

Parlare oggi di principi universali quando si sono ignorati più o meno volutamente molti aspetti liberticidi dei “nostri clienti arabi”, sa un po’di ipocrisia; ma non mi preoccuperei molto del futuro! Qualunque regime si affermerà nei Paesi del mondo arabo, un “affarista” che cura i propri interessi, lo troverà sempre…

Per finire, quali sono i risultati ai quali sono pervenuti finora i vari Paesi attraverso le rivolte in atto, nel mondo arabo?

Per rispondere con maggiore chiarezza, si può ricorrere alla schematizzazione delle principali fasi di una rivolta, ovvero: 1) la “piazza”; 2) l’allontanamento anche “spontaneo” del “dittatore” dal potere; 3) la “transizione”.

In tale contesto, la situazione dei Paesi considerati può essere così sintetizzata:

  • in Tunisia ed in Egitto, la protesta della “piazza” ha portato all’allontanamento “spontaneo” dei due regimi dal potere, rispettivamente di Ben Ali e di Mubarak: siamo cioè alla fase di “transizione”! Non mancano talune complicazioni, nel senso che la “piazza” rifiuta gli esponenti collusi con il precedente regime: a Tunisi, Mohammed Gannouchi è stato costretto alle dimissioni, dopo una serie di scioperi; al Cairo, Essam Sharaf, già Ministro dei Trasporti egiziano dal 2004 al 2005, ha sostituito Ahmed Shafqi, in precedenza Primo Ministro, al tempo di Mubarak;

  • la Libia per contro si trova in una fase di estrema gravità: è ormai “guerra civile”, con una spaccatura del Paese nelle due regioni storiche (Cirenaica e Tripolitania), dove si fronteggiano i fedelissimi di Gheddafi (32^ Brigata e Legione Islamica, supportate dalla Aeronautica Militare libica, per la riconquista delle piazze e delle aree petrolifere perdute) e i “rivoltosi” del Consiglio Nazionale di Liberazione, con sede a Bengasi. Non si esclude, a meno dell’abbandono del Paese da parte di Gheddafi, un intervento delle Forze NATO su decisione ONU, dopo l’attivazione di una “no fly zone”;

  • negli altri Paesi , la caduta del “muro arabo” non presenta al momento aspetti di estrema gravità; si tratta di Paesi dove ancora si riscontrano sentimenti di rispetto per la tradizione monarchica del Paese (Marocco, Giordania e Bahrein) e fiducia nelle riforme promesse; e dove la “piazza” non ha ancora individuato il leader di fiducia e la repressione ottiene risultati!

  • Da osservare infine che, negli altri Paesi di cui alla schematizzazione, la strategia degli USA, in questi ultimi giorni, sembra più orientata verso “cambiamenti di regime” graduali, non radicali.

Intervista a cura di Chiara Maria Leveque [email protected]

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