Parlare di Giovanni Giolitti significa parlare di uno dei più importanti statisti della storia nazionale. Al di là delle critiche, spesso aspre, di cui è stato oggetto da parte di contemporanei e posteri, sotto la sua guida l’Italia ha compiuto i passi indispensabili a trasformarsi in una moderna democrazia liberale popolare. Il giudizio sul suo operato è stato però offuscato dalle responsabilità del politico piemontese nell’aver in parte favorito l’ascesa del fascismo
LUNGO CORSO – Giolitti è una figura fondamentale nel panorama politico italiano, prima di tutto per la lunghezza del periodo in cui la sua influenza ha determinato gli indirizzi della politica del Regno d’Italia. Giolitti ha guidato per 5 volte il Governo in qualitĂ di Primo Ministro: dalla prima volta nel 1892 fino all’ultima nel 1921. Al di lĂ dei periodi in cui è stato nominalmente a capo dell’esecutivo, in tutto questo arco di tempo il politico, nato a Cavour in provincia di Torino, ha fatto sentire costantemente, in maniera determinante, la sua influenza sulla politica del Paese. Egli era un fine stratega del gioco parlamentare, capace di costruirsi nel tempo importanti alleanze e di scegliersi il momento piĂą propizio per sferrare offensive dai banchi della maggioranza o dell’opposizione. Questo suo lato di calcolatore e manipolatore fu naturalmente oggetto di critiche da parte di coloro che l’accusavano di essere un dittatore non dichiarato.
Ma Giolitti non rivolgeva la sua attenzione solo al Parlamento, anzi si può dire che creare e distruggere maggioranze politiche e governi non era il fine, ma il mezzo per ottenere i suoi scopi che guardavano più al Paese reale che a quello, ancora per nulla rappresentativo, dell’assemblea parlamentare. Sotto la sua iniziativa più o meno diretta sono state varate fondamentali riforme che si situavano all’avanguardia nel panorama internazionale. Un esempio lampante è costituito dalla legge del 1912 che istituiva il suffragio universale: una legge fortemente voluta dallo statista e preparata con una delle sue classiche ampie manovre parlamentari. Esponendosi di persona con un celebre discorso in aula (che provocò la caduta del Governo allora in carica di Luzzati anch’egli di fede giolittiana), Giolitti favorì in modo determinante l’accettazione da parte dell’emiciclo di un suffragio universale maschile, che i campioni dell’Europa liberale del tempo, Francia e Inghilterra, avrebbero adottato solo anni dopo. Questa mossa rientrava nella grande strategia di Giolitti che mirava ad includere le nascenti forze popolari, in special modo socialiste, nella vita politica ufficiale del Paese.
UNA STORIA EUROPEA – Il figlio del cancelliere del Tribunale di Mondovì aveva iniziato la sua carriera politica in anni di grande turbolenza sociale in Italia e in tutta Europa. Negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, tutto l’occidente industriale si andavano diffondendo sempre piĂą le idee socialiste e anarchiche. Alle rivendicazioni popolari il potere costituito rispondeva con una spietata repressione. In Italia un grande esempio della brutalitĂ e ottusitĂ delle forze della repressione era stata fornita dai fatti di Milano del 1898. La sproporzionata reazione alle proteste dei proletari milanesi per l’aumento del prezzo del pane da parte delle truppe del famigerato Bava Beccaris, che aveva disperso la folla a cannonate, aveva causato tra i manifestanti circa 100 morti. Il generale era stato poi premiato dal Re per questa eroica azione con una bella medaglia. La risposta a questa strage arrivò due anni dopo quando l’anarchico di Prato Gaetano Bresci tornò in Italia dal New Jersey dove era immigrato per uccidere a rivoltellate il Re Umberto I, mentre rientrava in carrozza alla Villa Reale di Monza. La lotta di classe era nella sua fase piĂą acuta non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa. In Francia il Presidente della Repubblica Carnot era caduto sotto i fendenti di un anarchico di origine italiana. Lo scontro si faceva ogni giorno piĂą acceso.
Per risolvere il problema Giolitti mirava all’inclusione dei partiti di sinistra estrema nell’agone politico ufficiale, in modo da renderli corresponsabili della situazione politica generale e più moderati nelle loro rivendicazioni. Per convincere i socialisti ad abbandonare l’obiettivo di abbattere lo Stato e invece iniziare a collaborare con esso, bisognava dimostrare che questa mossa avrebbe portato loro vantaggi concreti come appunto l’allargamento del censo alle classi sociali da cui provenivano i loro elettori.
ANCORA COLONIE – Il progetto di inclusione dei socialisti si arenò però nel momento in cui nel 1911 il governo presieduto da Giolitti dichiarò guerra alla Turchia e incominciò l’invasione della Libia. Dalla cocente sconfitta di Adua, una buona parte dell’opinione pubblica borghese e conservatrice sognava una rivincita e un’espansione del territorio coloniale. Il primo ministro italiano non era in veritĂ un fautore della guerra, ma la pressione dei vari circoli nazionalisti e colonialisti era talmente forte da aver portato il governo a rompere gli indugi e iniziare una lunga occupazione militare. La Nazione per l’ennesima volta non ottenne il tanto agognato prestigio a livello internazionale, tanto ricercato dal “partito delle colonie”, mentre dal punto di vista economico l’invasione della Libia non si dimostrò certo un affare. L’avventura militare minò inoltre qualsiasi possibilitĂ d’intesa con le forze socialiste tra le quali prese forza l’ala massimalista. Il progetto giolittiano si arenò nelle sabbie libiche e si dissolse del tutto nel fango delle trincee della Prima Guerra Mondiale che da lì a pochi anni avrebbe coinvolto il Paese (contro lo stesso volere di Giolitti).
Nuovamente primo ministro nel cosiddetto biennio rosso, Giolitti tentò di riproporre la strategia di istituzionalizzazione con le forze fasciste. La situazione nel Paese era nel frattempo molto cambiata, soprattutto in seguito al primo conflitto mondiale, il risultato fu quello di favorire l’affermazione del movimento mussoliniano. Senza una ferma opposizione istituzionale il movimento fascista attecchì e quando il “grande manipolatore” si accorse di aver fatto male i calcoli, i suoi pur significativi appelli a una resistenza democratica non trovarono più nelle forze politiche e nella monarchia interlocutori pronti ad assecondarli.
Jacopo Marazia