Durante le ultime settimane abbiamo assistito ad un innalzamento della tensione diplomatica tra la Turchia e lo stato di Israele. La “crisi” è stata generata dalla pubblicazione del rapporto Palmer sull’assalto israeliano alla Freedom Flottilla diretta a Gaza durante il quale, il 31 maggio dello scorso anno, sono stati uccisi nove attivisti turchi. La mancanza di scuse ufficiali da parte del governo di Netanyahu ha generato l’indignazione dei turchi. Ma cosa c’è dietro questo raffreddamento delle relazioni?
LA PRESA DI POSIZIONE – Con un importante comunicato del 2 settembre scorso, il Ministro degli Affari Esteri turco Ahmet Davutoğlu ha espulso l’Ambasciatore israeliano da Ankara, ridotto la rappresentanza diplomatica turca a Tel-Aviv e cancellato tutti gli accordi di carattere militare con Israele. La ragione sembra semplice: il rapporto presentato dai commissari ONU conferma che l’azione contro la nave turca Mavi Marmara è interpretabile come un “casus belli” per il governo Erdogan. Il Ministro degli Affari Esteri turco ha perfino precisato che non ci sarà normalizzazione dei rapporti fino a quando Israele non porrà ufficialmente le proprie scuse per quello che lo stesso Ministro, ha definito “atto di aggressione”. D’altra parte, il governo di Netanyahu resta fermo sulle sue posizioni da ormai più di un anno: l’azione, per quanto violenta, deve essere considerata come legittima difesa e inquadrata come “misura di sicurezza legale”.
Ciò che più colpisce, non è tanto la discussione in sé, quanto il fatto che dalla metà del 2008, con l’inizio dell’operazione israeliana “Cast Lead” (Piombo Fuso) nella Striscia di Gaza, le relazioni tra le uniche due potenze non arabe dell’area (Iran escluso), si sono pian piano deteriorate. Nonostante infatti, sotto il profilo economico, i due attori continuino a beneficiare di un volume bilaterale di commerci valutato intorno a 2,7 miliardi di dollari (con la Turchia che ricava 1,5 mld di dollari dalle vendite), il futuro di questa relazione strategica essenziale in Medio Oriente, sembra oggi appeso ad un filo. Le motivazioni, ad oggi, sembrano molteplici: vediamo perché.
LA TURCHIA SENZA ISRAELE? – Le decisioni di questi giorni favoriscono sicuramente l’amministrazione turca sia sotto il profilo della politica estera, sia di quella interna. Se infatti le asserzioni di Davutoğlu fanno piacere al governo di Teheran (sempre a caccia di alleati per delegittimare Israele), dall’altra anche l’elettorato turco apprezza l’operato del partito di governo, peraltro da poco rieletto.
Allo stesso tempo però, Ankara si allontana dall’obiettivo che si era preposta. Il soft-power della “profondità strategica” (dottrina di politica estera del ministro Davutoğlu) va man mano perdendo peso. Il raggiungimento di una pax turca con i vicini diventa sempre più un’incognita e l’attuale crisi con Israele, come il progressivo incrinarsi dei rapporti con la Siria di Assad, fanno pensare che il futuro della Turchia non sarà solo quello del peace keeper.
A confermare questa “correzione di rotta” in politica estera inoltre, è la dichiarazione che il governo turco ha rilasciato in risposta a quella pervenuta da Tel Aviv, la quale specificava una ripresa delle relazioni tra Israele e il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), organizzazione che durante tutta l’estate ha creato seri problemi di sicurezza sul confine turco-iracheno. Davutoğlu ha risposto alle provocazioni sottolineando che “nessun paese può ricattare la Turchia” e che “in quanto Stato costiero con la costa più lunga di tutti nel Mediterraneo orientale, la Turchia intraprenderà qualsiasi azione dovesse ritenere necessaria per assicurare la libertà di navigazione nel Mediterraneo orientale”. È evidente che questo è un avvertimento (che comunque va preso con le dovute cautele) che testimonia un netto cambio di posizioni verso una politica estera maggiormente orientata alla proiezione della propria potenza attraverso le capacità militari.
ISRAELE SENZA LA TURCHIA? – Per Israele, a questo punto, la situazione si fa complessa. Questa crisi diplomatica contribuisce ad un processo di isolamento già in atto, che a molti ormai sembra quasi irreversibile. Il governo di Netanyahu punta tutto sulla sicurezza, ma questo atteggiamento non sta giovando alla politica estera israeliana. Da sottolineare anche i rinnovati scontri con i palestinesi di Hamas (dopo la fine della tregua) e la rottura delle relazioni con l’Egitto (e conseguente ritiro della rappresentanza diplomatica del Cairo) che, dopo la caduta di Mubarak e l’uccisione di cinque poliziotti egiziani ad opera dell’esercito israeliano, potrebbe non garantire a Tel Aviv lo stesso grado di fedeltà che c’era in passato.
Allo stesso tempo Israele è preoccupata dalla incessante instabilità Siriana e dalle conseguenze del voto in Assemblea Generale dell’ONU per il riconoscimento dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) come osservatore permanente, il che permetterebbe a questa di avere propri rappresentanti all’interno delle maggiori agenzie delle Nazioni Unite. In questo stato di grande incertezza inoltre, Netanyahu sa bene di non poter contare (almeno nell’immediato) nemmeno sull’appoggio internazionale dei suoi soliti “partners”, Stati Uniti in primis, attualmente impegnati a discutere sul preoccupante andamento dell’economia globale.
DIETRO IL SIPARIO – Infine, la sfida tra Israele e Turchia si consuma anche sotto il profilo delle risorse energetiche. Uno (forse tra i più importanti) dei motivi per cui i due attori hanno cominciato apertamente a scontrarsi sul campo diplomatico, è proprio l’esistenza di ricchissimi giacimenti di gas naturale al largo di Cipro. Israele infatti è stato accusato sia dal Libano (con il quale è ancora formalmente in guerra) che dalla Turchia, non solo di aver violato, con la costruzione di piattaforme di estrazione, i diversi limiti marittimi ma (e questo riguarda i turchi in particolar modo), di aver stretto accordi con la “parte greca” dell’isola senza considerare che, non solo quest’ultima non è riconosciuta sul piano formale da Ankara, ma che non è la sola ad avere giurisdizione sui profitti del gas estratto. È anche per questa ragione che si prevede nei prossimi mesi una intensificazione delle attività militari navali della Turchia nel Mediterraneo orientale.
Così, dopo il tour di Erdogan nei paesi della “primavera araba”, attraverso il quale il premier turco sembra aver raccolto copiosi consensi (il che è importante vista l’attuale ristrutturazione degli assetti strategici nel Medio Oriente) attraverso lo slogan “gli israeliani sono bambini viziati”, Tel Aviv segue preoccupata la situazione, nonostante la buona notizia giunta da Washington dell’applicazione del veto americano in Consiglio di Sicurezza, la quale boccerebbe la proposta di riconoscimento per la Palestina.
Sebbene quindi questa crisi abbia scavato a fondo nei rapporti tra Israele e la Turchia (tanto da far decidere quest’ultima ad aggiornare i software di tutte le apparecchiature militari che evitavano di colpire mezzi israeliani considerati “amici”), uno scontro diretto appare oggi molto poco probabile. Lo scenario però cambia e si evolve. Ankara, da una parte, dovrà guardarsi intorno continuando a coltivare vecchie amicizie (vedi la Russia) e cercando nuovi sostenitori (quali potrebbero essere le neonate democrazie del Maghreb) tentando di non imporsi sullo scacchiere come attore troppo invasivo. Dall’altra inizierà a tutelare gli interessi nella sua sfera con un approccio più diretto, quindi mostrando i muscoli, se necessario.
Al contrario, Israele, dovrà cercare di uscire da questa fase di isolamento cronico e, a questo scopo, al governo Netanyahu toccherà provare a ricucire certi rapporti (anzitutto con l’Egitto). Allo stesso tempo, Tel-Aviv dovrà gestire i rischi che potrebbero sorgere dal mancato riconoscimento dell’ANP (possibile ritorno all’intifada). Le prossime settimane continueranno presumibilmente ad essere all’insegna della tensione.
Paolo Iancale [email protected]