Il giro del mondo in 30 Caffè – Dopo 9 anni e mezzo di occupazione militare e costi esorbitanti per i contribuenti USA (circa 800 miliardi di dollari secondo i dati diffusi dal Congresso statunitense), lo scorso 31 dicembre, l’Amministrazione Obama ha disposto il ritiro completo delle ultime unitĂ delle United States Forces dall’Iraq. Il Paese, stretto nella morsa delle violenze settarie, sembra essere ben lontano da un’effettiva pacificazione. Infatti, solo venti giorni dopo il ritiro USA, gli incidenti nel Paese sono ricominciati con piĂą veemenza rispetto al passato, causando oltre 220 morti tra i civili. Il rischio di una nuova escalation interna su base settaria potrebbe, dunque, produrre gravi ripercussioni anche sul contesto regionale
TENSIONI RELIGIOSE E POLITICHE ANCHE NEL GOVERNO – L’Iraq post-Saddam Hussein è stato caratterizzato da un’alta instabilitĂ sociale a causa della grande frammentarietĂ e debolezza politica dei governi succedutisi negli anni. BenchĂ© il processo di ricostruzione sia ben avviato, la pacificazione nel Paese è, da un lato, ancora fortemente frenata da una serie di fattori di carattere politico-sociale e, dall’altro, dalle tensioni regionali con l’influente vicino iraniano. Il recente ritiro statunitense ha soltanto evidenziato le lotte di potere esistenti tra le varie entitĂ etnico-religiose in seno al governo di unitĂ nazionale e che vede come principali protagonisti il Premier sciita Nouri al-Maliki e il Vice Presidente sunnita Tareq al-Hashemi. Infatti durante il mese di dicembre al-Maliki ha fatto emettere un mandato di arresto nei confronti di al-Hashemi, accusato di essere il mandante di una serie di atti terroristici contro la popolazione sciita del Sud del Paese. Per tutta risposta la componente sunnita ha immediatamente boicottato le riunioni di governo aprendo di fatto una crisi politica, mentre Al-Hashemi, ha negato le accuse e si è rifugiato nel Nord del Paese grazie all’aiuto che gli sarebbe stato fornito dal Presidente iracheno, il curdo Jalal Talabani. Le tensioni nel governo, però, non sono altro che un riflesso degli scontri inter-etnici che potrebbero alzare vertiginosamente il limite delle violenze con il rischio di “traghettare” il Paese verso una nuova guerra civile. Quindi l’impasse politica irachena e i pericoli rappresentati dal contesto regionale rimangono fattori di profonda inquietudine per le sorti del Paese.
L’IRAQ UNA PROVINCIA “SCIITA”? – La progressiva “settarizzazione” della politica irachena ha aperto il Paese alla crescente ingerenza delle potenze confinanti, in particolare all’influenza del vicino regime iraniano. La caduta di Saddam Hussein ha infatti offerto a Teheran l’opportunitĂ unica di reimpostare le proprie relazioni con Baghdad e, allo stesso tempo, di estendere la propria influenza sulla regione tramite un Iraq a maggioranza sciita. Oggi il governo al-Maliki è fortemente dipendente dalla componente sciita e, in particolare, dalle sue ali piĂą radicali strettamente legate alle alte gerarchie di Teheran. Tra esse spiccano le fazioni fedeli al mullah Moqtada al-Sadr, leader dell’omonimo movimento politico che in Parlamento occupa 41 seggi su 325 totali. Alla luce della crisi in seno al governo iracheno, al-Sadr e tutte le altre fazioni sciite radicali potrebbero tentare di unirsi e creare un movimento politico sullo stile di Hezbollah in Libano riflettendo dunque in modo molto piĂą marcato gli interessi iraniani in Iraq e avvicinando il Paese arabo nella totale sfera di influenza di Teheran. Infatti, oggi piĂą che mai, la Repubblica Islamica ha bisogno dell’Iraq come solido alleato anche perchĂ©, nel contempo, rischia di perdere la Siria, suo storico partner strategico.
USA E CCG TEMONO L’IRAN – La paura di una nuova destabilizzazione irachena favorita dall’importante intrusione iraniana nella vita pubblica del Paese, preoccupa non poco gli USA e i suoi alleati arabi del Golfo. GiĂ da tempo Washington ha rafforzato la propria presenza nella regione attraverso un aumento dei contingenti militari stanziati in Bahrain ed in Qatar, basi militari ritenute altamente strategiche insieme a quelle in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti. Non a caso la presenza USA in Iraq ha costituito uno strumento utile a limitare le mire espansionistiche e l’influenza iraniana verso i Paesi del Golfo, il Medio Oriente e Israele, mentre il territorio iracheno è stato usato come base operativa per limitare le attivitĂ di al-Qaeda verso la Penisola Arabica. Dopo il ritiro statunitense dall’Iraq, il timore delle monarchie arabe del Golfo è che la Penisola Arabica possa divenire nuovo obiettivo del perenne scontro politico-confessionale tra il Sunnismo saudita e lo Sciismo iraniano. In quest’ottica le monarchie arabo-sunnite sarebbero propense ad agire militarmente, in coabitazione con il fidato alleato statunitense, attraverso il proprio organismo regionale (Consiglio di Cooperazione del Golfo – CCG) al fine di frenare l’attivismo iraniano nell’area. Infatti, qualora l’Iran riuscisse ad aumentare la propria influenza in Iraq, gli equilibri del Golfo potrebbero subire un drastico mutamento producendo, dunque, inevitabili ripercussioni politiche nell’intera regione.Â
QUALE QUADRO EMERGE? – L’Iraq è sicuramente un Paese non ancora stabilizzato e profondamente diviso sul piano interno, in cui le alleanze politiche sono fragili e non consolidate e le violenze di questi mesi, in particolar modo nel Nord del Paese e nel Sud sciita, sono ben lungi dal potersi considerare terminate. Nonostante la continua professione di indipendenza e di sicurezza nelle capacitĂ dello Stato da parte di al-Maliki, in molti in USA e nello stesso Iraq temono che nel ritiro statunitense possa nascondersi anche un problema per la sicurezza interna e regionale. Una situazione che vedrebbe l’Iraq in balìa di provocazioni o intrusioni del suo potente vicino iraniano e con il rischio guerra civile sempre pronto a sbucare da dietro l’angolo.