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Il crocevia pakistano

Il Giro del Mondo in 30 Caffè 2012 – In termini geopolitici il Pakistan ha assunto negli ultimi anni un ruolo chiave, sia riguardo le relazioni tra le potenze regionali asiatiche sia nel contesto globale. L’attenzione rivolta dalla comunità internazionale nel suo complesso verso la situazione interna del Paese sta aggiungendo pressione a un momento molto delicato della vita politica pakistana

 

PESO DETERMINANTE – Il Pakistan, la sua stabilità e le scelte di politica estera sono cruciali per diversi motivi. È logico pensare che un Paese islamico di quasi centocinquanta milioni di abitanti e dotato di un arsenale atomico possa spostare gli equilibri non solo del quadrante centroasiatico ma delle relazioni internazionali nel loro complesso. Esiste però un duplice ordine di problemi. Da un lato le vicende domestiche che investono la sfera politica e quella economica, con lo scontro tutto interno alla classe dirigente pakistana che mina il già fragile sistema economico pakistano, scoraggiando soprattutto gli investimenti. Dall’altro il sistema di alleanze eo amicizie strategiche che ha subito una serie di scossoni negli ultimi anni, in particolare con gli Stati Uniti e la Cina, senza dimenticare la rivalità storica con l’altra grande potenza nucleare della regione, l’India.

 

GIGANTE DAI PIEDI D’ARGILLA – Il problema principale del Pakistan rimane il delicato equilibrio istituzionale, il quale non è in grado di dare stabilità e credibilità al sistema politico pakistano. Sostanzialmente il potere ruota intorno a tre cardini: l’esercito, il governo e la corte suprema. Questi tre elementi, in particolare dopo il 2008 (dopo la deposizione del generale Musharraf) sono in crescente conflitto uno contro l’altro. Infatti esercito e corte suprema erano già ai ferri corti per via del contributo decisivo di quest’ultima nell’estromissione dei generali dal governo, esercito e governo civile nutrono diffidenza reciproca dopo il colpo di Stato del 1999 ai danni di Sharif e le attuali politiche di Zardari e Gilani (rispettivamente attuale presidente e primo ministro), e corte suprema e governo civile sono impegnati in azioni di delegittimazione reciproca da diverso tempo. In particolare nel 2011 si è acuita l’asperità con cui il conflitto da latente si è palesato all’opinione pubblica interna e internazionale. L’ultimo esempio è, lo scorso ottobre, l’esplosione del caso “Memogate”. Un memo segreto sarebbe stato consegnato da un uomo d’affari americano, di origine pakistane (Mansoor Ijaz), all’Ammiraglio Mike Mullen in cui verrebbe chiesto agli Stati Uniti di proteggere l’attuale governo da un imminente colpo di Stato da parte dell’esercito, in cambio di un parziale smantellamento dei servizi segreti pakistani (ISI) e di uno sforzo maggiore nella lotta contro l’estremismo islamico. Il mittente sarebbe l’ormai ex ambasciatore negli Stati Uniti Husain Haqqani, su richiesta del presidente Zardari. Haqqani è stato subito richiamato da Washington e sembra essersi rifugiato nella residenza del primo ministro Gilani per paura di ritorsioni. Intanto, oltre alle reciproche accuse tra Gilani e i comandanti dell’esercito, la Corte Suprema non ha perso tempo e ha avviato un’investigazione ufficiale per far chiarezza su cosa ci sia di fondato nel “Memogate”. Le indagini si sovrappongono inoltre all’avvio del procedimento, sempre da parte della Corte Suprema, contro Gilani e Zardari per presunta corruzione, finanziata da conti svizzeri riconducibili al presidente pakistano. È da sottolineare che l’attuale Presidente della Corte Suprema pakistana è Iftikhar Muhammad Chaudhry, lo stesso che nel 2007 fu esautorato dal suo ruolo da Musharraf e lo stesso al cui reinsediamento Zardari si oppose con fermezza. Detto ciò si intuisce come le vicende anche personali della classe dirigente siano di grande rilievo in questo momento, gettando benzina su una situazione già infuocata.

 

COUPE D’ETAT? – Secondo diversi analisti un nuovo colpo di Stato da parte dell’esercito sembra però poco realistico. Sebbene sia l’istituzione più vicina al popolo pakistano e all’elite economica per la sua anima conservatrice e, soprattutto, perché dominata dalla componente punjabi, non ci sarebbero le condizioni per instaurare un governo militare. Innanzitutto l’esercito ha subito uno scacco imbarazzante, essendo stato colto di sorpresa dall’azione americana ad Abbottabad (che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden); secondo, il difficile rapporto con la Corte Suprema non darebbe stabilità a tale governo; infine i militari hanno cercato in passato condizioni economiche floride per legittimare il proprio potere, presupposti non riscontrabili in questo periodo. Il 2012 si presenterà quindi come un anno di travaglio; le possibilità concrete sono due: aspettare il termine della legislatura, con le elezioni parlamentari previste per l’inizio del 2013 o anticiparle a causa della continua pressione della Corte Suprema. Lo scenario rimane comunque incerto poiché le alternative al Pakistani People’s Party (PPP), ora al potere, sono la Pakistan Muslim League (PML-N) dell’ex Primo ministro Sharif (lo stesso Sharif che quando, nel 1999 cercò di ostracizzare il Generale Musharraf, venne rovesciato e rimase in esilio per dieci anni, perciò inviso all’esercito) oppure il Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) dell’ex giocatore di cricket Khan, più vicino all’esercito ma anche su posizioni decisamente anti-americane, e quindi non ben visto da Washington.

 

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ISLAMABAD-WASHINGTON PASSANDO PER KABUL – L’intricata situazione interna si riflette anche nelle relazioni con gli storici alleati, Stati Uniti e Cina. Inoltre il ritrovato attivismo indiano complica notevolmente gli spazi di manovra pakistani nel ridefinire le priorità di politica estera. Procedendo con ordine. Gli Stati Uniti hanno un precedente importante durane l’occupazione sovietica in Afghanistan, quando inondarono di aiuti economici e militari il Pakistan per contrastare l’URSS. Una volta cessato il pericolo comunista fu interrotto anche il flusso di dollari versati nelle casse pakistane (nel 1988 erano 783 milioni di dollari, nel 1992 la cifra era molto vicina allo zero). La classe dirigente pakistana nel suo complesso non vede la convenienza di risolvere in maniera definitiva la situazione afgana per il timore del venir meno degli aiuti americani. La disponibilità pakistana di offrire aiuto in termini di uomini, informazioni e restrizione volontaria della propria sovranità territoriale sembra essersi affievolita nell’ultimo periodo, almeno pubblicamente. Dall’altro lato però non pare esserci l’intenzione di schierarsi apertamente contro gli Stati Uniti. Le mosse del governo pakistano sono perciò altalenanti e poco coerenti con un’unica linea di condotta. Solo per fare alcuni esempi il governo sta contrastando risolutamente al Qaeda o i gruppi talebani pakistani ma non quelli afgani oppure formazioni come Hezb-i-Islami. Nel giugno 2011 il primo ministro afgano Karzai si è recato in visita ad Islamabad per garantire che il dialogo con i talebani afgani non fosse ostacolato dal Pakistan (che però premeva per far entrare nel governo di Kabul quei talebani appoggiati direttamente dall’ISI). Nel novembre 2011 un’azione NATO ha portato all’uccisione di 24 soldati pakistani, e la reazione di Islamabad non si è fatta attendere, chiudendo di fatto le vie di rifornimento per l’Afghanistan dal territorio pakistano. Sempre nel 2011, in primavera, il Pakistan ha richiesto formalmente a Washington di ritirare la maggior parte dei suoi addestratori militari e degli agenti della CIA dal Paese. Detto ciò sia il governo civile che l’elite militare ha continuato a tollerare e spesso a incoraggiare (più in via riservata che pubblicamente) le incursioni americane in Nord e in Sud Waziristan, nei territori tribali (FATA), in particolare le operazioni dei cosiddetti droni che stanno diventando sempre più preziose e prive di danni collaterali nel tentativo di riportare l’ordine nella regione e di eliminare centri di potere, che rischiano di diventare scomodi e fuori controllo anche per Islamabad.

 

LA VIA DELLA SETA – Diversi analisti e molti uomini politici pakistani intravedono nella Cina un’alternativa strategica agli Stati Uniti. Un articolo del dicembre scorso, a firma di Evan Feigenbaum, aveva però come sottotitolo “The end of the all-weather friendship”. La vicinanza strategica tra Pechino e Islamabad è rimasta per diversi anni uno dei principali cardini su cui si è mossa la politica estera pakistana. La Cina è considerata uno dei migliori alleati militari del Pakistan e un partner economico su cui si può contare per il commercio e l’afflusso di capitali. Da parte cinese gli obiettivi dell’amicizia con Islamabad sono sostanzialmente relativi al contenimento dell’espansione indiana, alla stabilità delle proprie provincie occidentali (stabilità politica ed economica), alla sicurezza dei propri confini continentali e alla preoccupazione che l’attivismo americano in Pakistan possa minacciare gli interessi centroasiatici di Pechino. Mentre per il Pakistan la Cina rimane fondamentale per compensare l’altalenante relazione con gli USA, Feigenbaum sottolinea l’esigenza di Pechino di bilanciare tre fattori di rischio nel calcolo del flusso di denaro e sforzi in Pakistan, ovvero rischio geopolitico, politico e finanziario. Sotto il profilo geopolitico, l’alleanza sino-pakistana è solida, riflettendo quello che è la spina dorsale del rapporto tra i due paesi (è di maggio 2011 la notizia della vendita di cinquanta aerei JF-17 a Islamabad). Il problema sorge da una parte nel crescente numero di attacchi che compagnie e lavoratori cinesi subiscono in Pakistan, che scoraggiano investimenti e attività commerciali e dall’altra la condizione economica pakistana, di certo non un ambiente favorevole per investire: un debito pubblico superiore al 60% del prodotto interno lordo, inflazione galoppante, deficit nella bilancia commerciale e poca credibilità delle politiche economiche attuate. Se, per ora, l’alleanza con Pechino sembra scontata per motivi strategici, non è però detto che lo sarà in futuro, soprattutto se verranno meno le condizioni economiche e politiche minime che garantiscono a Pechino non solo un vantaggio sin termini politici ma anche in termini di fruttamento degli investimenti e di sicurezza dei propri asset.

 

FARE GLI INDIANI – Tutte le valutazioni precedenti devono tenere conto della storica rivalità indo-pakistana. L’India ha riscoperto nell’ultimo periodo una vitalità internazionale che minaccia l’incolumità del Pakistan. La ritrovata sintonia con gli Stati Uniti e l’interesse crescente nella stabilizzazione del vespaio afgano preoccupano governo ed esercito pakistani. L’india è, inoltre, ripetutamente accusata dal Pakistan di sostenere le minoranze separatiste, tra tutti l’esercito di liberazione del Belucistan (BLA), con il deliberato obiettivo di destabilizzare il Paese. Dall’altra parte Nuova Delhi è convinta che la maggior parte degli attacchi terroristici in territorio indiano siano finanziati dai servizi segreti pakistani. Oltre a ciò sono continue le dimostrazioni di forza di entrambi i governi. Se nel 2007 erano sessanta le testate nucleari possedute da Islamabad, nel 2011 hanno superato le cento unità, allarmando la comunità internazionale. Inoltre è prevista tra il 2012 e il 2013 la costruzione di un quarto reattore per l’arricchimento dell’uranio. Sicuramente non segnali di distensione. Il nodo cruciale delle relazioni tra le due potenze nucleari rimane, ad ogni modo, il destino del Kashmir. Dal 2007 si sono aperti colloqui informali per sondare il terreno su una possibile soluzione che prevedrebbe una sorta di “soft borders” tra le due zone in cui è diviso il Kashmir; in pratica una zona dotata di ampia autonomia in cui cittadini e merci si potrebbero spostare liberamente. A tutto il 2011 non è stato fatto alcun passo in avanti, ma fonti diplomatiche evidenziano che il vero successo è che questi canali informali non siano stati ancora chiusi definitivamente, lasciando intravedere spiragli per il raggiungimento di basi negoziali nel medio e lungo periodo. Il sistema di relazioni internazionali e i rapporti istituzionali e personali all’interno della società Pakistana contribuiscono a creare un’intricata situazione difficile da sbrogliare e priva di una soluzione poco complessa. Il delicato equilibrio raggiunto rischia di congelare i tentativi di cambiamento per la paura del collasso dello Stato pakistano, che non gioverebbe ad alcun attore sia interno ma soprattutto esterno. Si delinea così un futuro in cui anche la più piccola miccia potrebbe causare una reazione a catena incontrollabile, ma dove, allo stesso tempo, l’immobilismo non porta ad una soluzione di medio e lungo periodo durevole e credibile.

 

Davide Colombo

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Davide Colombo
Davide Colombo

Sono laureato in Relazioni Internazionali con una tesi sulla politica energetica. Ho frequentato un master in Diplomacy. Mi interesso e scrivo soprattutto di Stati Uniti. Le opinioni espresse negli articoli sono personali.

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