Un Caffè americano – Le posizioni in politica estera dei candidati non influenzeranno in maniera determinate l’intenzione di voto, almeno per l’elettore medio americano. Però determineranno sicuramente, nei prossimi quattro anni, il ruolo e il comportamento degli Stati Uniti nello scenario globale. Quali sono realmente le differenze di approccio alle relazioni internazionali di Obama e Romney e quali conseguenze comportano? Non tutto è bianco o nero
DENTRO I PARTITI, OLTRE I PARTITI – Delineare l’impostazione della politica estera americana non è scontato. All’interno di ciascun partito si confrontano scuole di pensiero molto diverse tra loro. Le convinzioni dei candidati presidenti e la scelta dei loro consiglieri e degli uomini-chiave dell’amministrazione, sono tutti elementi che rispecchiano un equilibrio nel rapporto di forze dell’establishment di partito. Se si pensa solo ai candidati alle primarie repubblicane si possono incontrare, a grandi linee, le diverse anime del Grand Old Party (GOP). Ron Paul, vicino agli isolazionisti, Newt Gingrich, allineato ai neoconservatori del primo mandato di Bush (jr), Jon Huntsman, ex ambasciatore in Cina ed ex governatore dello Utah su posizioni più realiste, e Mitt Romney che, da candidato presidente, ha dovuto prendere in considerazione tutte queste posizioni, così distanti tra loro. E lo stesso vale per il Partito Democratico. Obama ha dovuto trovare dei compromessi tra l’ala liberal e il grande centro, che è riuscito a conquistare nelle elezioni del 2008, tra i fautori di un interventismo umanitario e quelli di un più attento internazionalismo multilaterale. Non è tanto il partito che detta le linee di politica estera quanto le scuole di pensiero, del tutto trans-partitiche, che, a seconda del momento storico e del loro grado di influenza, indirizzano l’agenda presidenziale. È indicativo il fatto che il primo Segretario della Difesa dell’era Obama sia stato il repubblicano Robert Gates, lo stesso che aveva concluso il secondo mandato di Bush. Perciò, anche Obama e Romney non si distanziano molto da questa logica. Semplificando molto, l’attuale presidente è più vicino all’idea di un internazionalismo, per così dire, moderato mentre il candidato repubblicano sostiene un ruolo più assertivo della politica americana, abbastanza vicino all’idea di eccezionalismo americano come intesa da Bush. Ma non tutti sanno che i maggiori esponenti del neoconservatorismo (colonna portante del primo mandato di Bush) provenivano dalle file del partito democratico, e si rifacevano all’idealismo wilsoniano.
LA VERA SFIDA – Tra le maggiori sfide in campo internazionale che il prossimo presidente dovrà affrontare, la più difficile, secondo quanto dichiarato da Henry Kissinger in un’intervista al Washington Post, sarà quella del budget, o meglio, di come armonizzare gli obiettivi di politica estera ai tagli al bilancio federale, alcuni dei quali già effettuati dal Congresso e altri in programma. I due pilastri della proiezione di una potenza verso l’esterno sono tradizionalmente l’hard power e il soft power. Il primo pilastro riguarda la capacità militare e il dispiegamento di forze all’estero. Il dipartimento della difesa subirà un ridimensionamento della spesa pari a 487 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni (come indicato dal Budget Control Act, passato al Congresso nel 2011) e un possibile taglio ulteriore di altri 600 miliardi di dollari, su cui si deciderà all’inizio del prossimo anno (se confermato tagli effettivi per circa il 20% del budget). Riguardo tale aspetto i candidati sembrano avere visioni abbastanza discordi tra loro. Obama predilige il supporto alla democrazia e ai movimenti che la sostengono, piuttosto che una promozione attiva dei valori democratici (tipica del modello Bush). Anche l’uso della forza si adegua a questa impostazione, e un suo secondo mandato sarebbe in linea con quanto fatto fin ora. Il concetto di Leading from behind (si sta ripetendo in Siria ciò che è già successo in Libia) rimarrebbe centrale. Inoltre, la riluttanza nell’inviare forze convenzionali sul campo, porterebbe a un ulteriore incremento delle operazioni su piccola scala delle Forze Speciali, di un aumento sostanziale delle missioni degli arei pilotati a distanza per bombardare Afghanistan, Pakistan, Yemen e, secondo necessità, altri teatri operativi e lo sviluppo dei cyber-attack sarebbe lo sbocco naturale del confronto, per esempio, con l’Iran (Stuxnet e Flame per citare due casi di worm usati per spiare e riprogrammare computer). Romney, ha dichiarato, in un discorso al Virginia Military Institute che è responsabilità del presidente utilizzare la grande potenza americana per dar forma alla storia, sostenendo inoltre che è la strategia che deve guidare il budget e non viceversa. Vorrebbe, nel caso fosse eletto, spendere il 4% del Pil americano per la difesa (incrementando la spesa in questo settore di circa 2.100 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni). Il candidato repubblicano cercherebbe un confronto più diretto con le potenze rivali e di stabilire un ruolo chiaro di leadership del “mondo libero” da parte degli Stati Uniti. Eserciterebbe una chiara deterrenza nei confronti di Mosca (definita l’antagonista numero uno), Pechino (che verrebbe dichiarata manipolatrice monetaria il primo giorno di presidenza), Teheran (verso cui sarebbe disposto anche a un’azione militare per impedire la costruzione dell’arma atomica) e Pyonyang. Anche riguardo la situazione in Siria e la questione palestinese, Romney, a differenza di Obama, preferirebbe portare gli Stati Uniti a una responsabilità più diretta nella gestione. Sarà però necessario valutare quanto il clima della campagna elettorale abbia influito realmente sull’opportunità politica di queste dichiarazioni.
NON COSI’ SOFT – Il secondo pilastro, non meno importante, riguarda gli aiuti allo sviluppo. Rappresenta il braccio operativo dal lato civile ed economico. È durante la presidenza Bush che gli aiuti allo sviluppo diventano strutturalmente parte della politica estera. Infatti, la US Agency for International Development è stata inclusa nel Dipartimento di Stato, per facilitarne il suo utilizzo. Il presidente Obama, in un suo eventuale secondo mandato, farebbe molto affidamento su questo strumento, poiché altamente funzionale alla sua politica poco invasiva. Il condizionamento degli aiuti economici a standard politici è poco visibile ma, allo stesso tempo, influenza i processi decisionali di parecchi governi. Per l’anno fiscale 2013 il Dipartimento di Stato ha chiesto 51,6 miliardi di dollari per garantire la sicurezza nazionale e lo sviluppo. In particolare 33,7 miliardi di dollari sono stati chiesti per programmi di assistenza, sviluppo economico, tutela dei diritti umani. Rispetto al 2012 i fondi saranno ridotti dello 0,5%, e concentrati soprattutto nel quadrante AfPak che assorbe circa 7 miliardi di dollari (voci di spesa maggiore “rule of law” e “counterterrorism”), e nel Medio Oriente-Nord Africa, dove verrà creato un nuovo fondo di supporto economico alle popolazioni “che hanno chiesto riforme e governi in grado di attuarle” (così recita la richiesta ufficiale del Segretario Clinton) di circa 770 milioni di dollari (che si aggiungono ai 9 miliardi già richiesti).
Anche Romney cercherà di sfruttare il peso degli aiuti allo sviluppo per indirizzare la propria politica estera. Innanzitutto vorrebbe affiancare a questo tipo di aiuti (che dopo l’undici settembre sono stati indirizzati perlopiù verso l’assistenza agli Stati alleati e all’antiterrorismo) un consistente contributo per il settore privato e il commercio; in particolare rivolgendosi all’America Latina, con il programma Campaign for Economic Opportunity in Latin America (per sfruttare al meglio i recenti accordi commerciali con Colombia e Panama), e all’Africa, con il fine di creare un ambiente economico adeguato per la crescita. Inoltre sembra che l’intenzione del candidato repubblicano sia quella di una riforma della gestione degli aiuti stessi, così da creare un sistema speculare a quello del dipartimento della difesa, ossia unificando piattaforme, analisi e pianificazione strategica per “comandi regionali”, affidandone la gestione alla diplomazia, e riequilibrando così il gap tra la presenza militare (ben organizzata e con un margine di manovra ampio) e la presenza civile, spesso più frammentata e disorganizzata.
Romney e Obama sfrutterebbero al massimo le risorse messe a disposizione, sia dal lato della difesa che dal lato diplomatico. La presenza potrà essere più o meno visibile, i missili sganciati da un aereo comandato a distanza o lanciati da una torpediniera, i fondi allo sviluppo utilizzati più in Egitto o in Giordania. Ma il futuro Presidente degli Stati Uniti difficilmente rinuncerà a determinare le sorti del mondo nei prossimi quattro anni.
Davide Colombo