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Il problema dell’integralismo islamico nel Sud-est asiatico

Il 14 gennaio di quest’anno l’Indonesia è ripiombata nuovamente nell’incubo del terrorismo islamico, dopo che un gruppo di nove attentatori ha preso d’assalto uno Starbucks nel centro di Giacarta, uccidendo due persone e ferendone una in modo grave. Questo articolo si propone di analizzare la complessa galassia jihadista presente nel Sud-est asiatico e intende identificare le ragioni che spingono i giovani asiatici ad arruolarsi tra le fila del sedicente Stato Islamico. Da ultimo, riporteremo le iniziative legislative dei Governi della regione volte a contrastare il fenomeno dell’integralismo

LA PENETRAZIONE DELL’IS NELLA REGIONE – Il commando che il 14 gennaio ha seminato il panico nel cuore di Giacarta era composto da nove attentatori, di cui cinque uccisi dalle Forze speciali indonesiane e quattro finiti in manette. Le vittime accertate sono state due, un agente di polizia indonesiano ed un cittadino canadese, ma il bilancio finale avrebbe potuto essere certamente più pesante. L’attacco del mese scorso si è verificato all’interno di uno Starbucks frequentato da turisti stranieri e pare differenziarsi dal terribile attentato di Bali dell’ottobre 2002 per due motivi sostanziali: primo, l’assalto alla caffetteria è stato rivendicato da una cellula terroristica legata all’autoproclamato Stato Islamico (IS); secondo, le modalità con cui l’attacco si è sviluppato ricordano molto la tattica utilizzata dagli attentatori di Parigi del 13 novembre 2015, quella che in gergo militare è conosciuta col nome di barricade-style attack. È una novità per il Paese islamico più popoloso del mondo e per la regione del Sud-est asiatico in generale. Attacchi di questo tipo non hanno alcun obiettivo mirato, bensì intendono causare più vittime possibili tanto tra gli stranieri quanto tra la popolazione locale, spargendo il terrore nelle zone centrali delle grandi città. Nessuno dei terroristi implicati portava addosso cinture esplosive, segno che il commando si era appositamente addestrato per un’irruzione molto simile a quella avvenuta al Bataclan.

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Fig. 1 – Giacarta, Indonesia: manifestazione contro il terrorismo davanti allo Starbucks teatro degli attacchi terroristici dello scorso 14 gennaio.

Per la verità, nei mesi precedenti all’attentato di Giacarta, sia l’Indonesia che altri Paesi della regione avevano sventato una serie di attacchi: nel febbraio 2015, per esempio, gli artificieri indonesiani disinnescarono un ordigno rudimentale posto al di fuori di un centro commerciale. Nell’agosto 2014, invece, le forze di intelligence malesi riuscirono ad intercettare in tempo un gruppo di militanti vicino a Daesh pronto ad irrompere all’interno della birreria Carlsberg di Kuala Lumpur. L’attivismo delle cellule integraliste del Sud-est asiatico non si è mai sopito del tutto, anzi, negli ultimi anni è stato rinvigorito dalla propaganda jihadista che l’IS continua a diffondere tramite il web. Secondo un recente studio del Soufan Group, un’agenzia di security intelligence con base a New York, dei 12-16.000 foreign fighters presenti in Siria ed Iraq 600 provengono dal Sud-est asiatico. Comprendendo nel computo anche i familiari dei combattenti, la cifra sale a circa 900 persone. Katibah Nusantara è l’ala militare di Daesh di stanza nella città siriana di al-Shaddadah ed è interamente formata dai giovani di nazionalità indonesiana e malese. Tale gruppo è impegnato sul fronte orientale della Siria contro i Peshmerga curdi. Benché la causa dell’autoproclamato IS sia stata finora sposata da tutti i militanti asiatici presenti in Medio Oriente, gran parte dei giovani indonesiani e malesi hanno preferito unirsi al Fronte al-Nusra per le affinità ideologiche di questo gruppo con al-Qaeda. Ma l’IS ha comunque riacceso l’interesse di questi giovani volontari alla causa islamista dopo oltre tre decenni trascorsi dal conflitto in Afghanistan del 1979-89, dove centinaia di mujahidin confluirono da tutta l’Asia per arrestare l’avanzata dell’Esercito sovietico. Tuttavia, rispetto al caso afghano, il militante-tipo si caratterizza principalmente per la sua giovane età, frequenta l’università o ricopre ruoli professionali di alto livello all’interno delle aree urbane di provenienza. In sostanza, non ci troviamo di fronte alla pletora di fanatici ed emarginati sociali influenzati dal proselitismo di predicatori o imam, votati all’ideologia e al martirio, ma di un gruppo di individui che dimostra molta familiarità con Internet ed i social network.
È ben noto che l’IS abbia fatto della comunicazione digitale un potente mezzo di propaganda integralista e di reclutamento, che ha attecchito particolarmente in quelle aree del Sud-est asiatico dove vi è un’ampia diffusione della rete: nel caso della Malesia, ad esempio, il 67% della popolazione urbana ha accesso ad Internet. Molto spesso sono le donne a fare da tramite tra i propri mariti/figli ed i procacciatori di Daesh, comunicando direttamente con quest’ultimi attraverso le chat social dell’universo digitale jihadista.

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Fig. 2 – La polizia indonesiana arresta un sospetto jihadista a Malang, febbraio 2016.

TRA IDEOLOGIA RADICALE E RIVENDICAZIONI POLITICHE – Le stime ufficiali fornite dai Governi delle nazioni ASEAN indicano la presenza di poco meno di 300 propri connazionali sul fronte sirio-iracheno, gran parte dei quali con passaporto indonesiano. In molti tentano di raggiungere il confine turco-siriano per arruolarsi tra le fila dell’IS o di altre formazioni islamiche fondamentaliste e apprendere così i principali strumenti del jihad. Coloro che trovano l’occasione di ritornare in Asia, riprendono contatti con le cellule terroristiche locali o vi si arruolano per la prima volta, riproponendo le stesse tecniche di combattimento affinate al fronte. La galassia jihadista dell’Asia sud-orientale ingloba dentro di sé gruppi tra di loro molto eterogenei che portano avanti rivendicazioni di svariata natura, non necessariamente riconducibili ad aspetti religiosi. Nelle Filippine, i principali gruppi islamisti sono Abu Sayyaf (organizzazione salafita concentrata nella Regione autonoma del Mindanao musulmano e legata formalmente all’IS), il Moro Islamic Liberation Front (movimento secessionista nato negli anni Sessanta del secolo scorso che nel 2014 ha firmato un accordo di pace col governo di Manila) e il Bangsamoro Islamic Freedom Front (distaccatosi dal Fronte di liberazione Moro in disaccordo con la loro decisione di riporre le armi). In Indonesia, le organizzazioni fondamentaliste più attive sono Jemaah Islamiyah (fondata da ex reduci della guerra civile afghana di fine anni Settanta), al-Qaeda nell’arcipelago Malay e Jemaah Anshaur Tauhid del leader religioso Abu Bakar Ba’asyir (entrambe fazioni scissioniste di Jemaah). Vi sono, inoltre, movimenti e cellule operanti sia in Malesia che nelle province meridionali a maggioranza musulmana della Thailandia.

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Fig. 3 – Protesta di cittadini filippini per la morte di quarantaquattro poliziotti uccisi da estremisti islamici nel Sud del Paese, febbraio 2015.

Ci troviamo davanti ad organizzazioni estremistiche coese e ben coordinate, che hanno fatto propri i dogmi dell’Islam fondamentalista e che riescono con facilità ad autofinanziarsi attraverso i consueti canali illegali. Ma il fanatismo religioso costituisce solo una parte del retroterra ideologico di questi gruppi. Jemaah, ad esempio, ha ereditato la vocazione pan-islamista dal movimento politico Darul Islam, costituitosi dopo la guerra d’indipendenza contro i coloni olandesi e, successivamente, messo al bando dal regime di Suharto per il suo sostegno alla creazione di un califfato entro i confini attuali di Indonesia e Malesia. Stesso discorso può dirsi del Movimento di liberazione del popolo Moro nelle Filippine e del Patani United Liberation Organisation in Thailandia, salito alla ribalta internazionale dal 2004 per le esecuzioni sommarie perpetrate nei confronti della popolazione di fede buddhista. In definitiva, l’esistenza di queste entità paramilitari non dipende tanto dalla volontà di diffondere il jihad nel Sud-est asiatico, quanto piuttosto dalla possibilità di affermare la propria identità sociale e culturale all’interno dei Paesi in cui essi operano. Autodeterminazione e partecipazione politica si compenetrano con elementi dell’Islam radicale, formando un’amalgama ideologico denso e, al tempo stesso, infido.

UNA LEGISLAZIONE POCO INCISIVA – L’emergere dell’IS quale punto di riferimento dell’universo jihadista ha certamente influenzato le strategie e gli obiettivi dei gruppi islamici radicali del Sud-est asiatico. Se fino ad un decennio fa sarebbe stato impensabile assistere a sequestri di persona e decapitazioni sommarie nella regione, con l’avvento dei nuovi strumenti di comunicazione digitale le organizzazioni locali hanno totalmente cambiato il proprio modus operandi per ottenere una maggiore risonanza mediatica sia in patria che all’estero. Come ha scritto Zachary Abuza, professore al National College di Washington D.C., le cellule terroristiche fanno ora affidamento su nuovi canali di finanziamento come i rapimenti e le estorsioni, e mettono in pratica nuove forme di attacchi per attirare più facilmente l’attenzione dell’opinione pubblica. In questo senso, la metamorfosi più evidente ha riguardato Abu Sayyaf, influenzata dalla strategia comunicativa di Daesh. Tra il 1990 ad oggi, essa ha eseguito circa 40 decapitazioni di ostaggi e raccolto centinaia di migliaia di dollari dai riscatti o dal traffico di droga. Il forte legame che unisce il gruppo terrorista filippino all’IS è stato suggellato da un giuramento di fedeltà (in arabo, bai’yat) prestato nei confronti del “califfo nero” al-Baghdadi.

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Fig. 4 – Musulmani indonesiani controllano su Internet i dettagli relativi alla fine del Ramadan, agosto 2013. Il crescente uso del web e dei social network nel Sud-est asiatico ha consentito allo Stato Islamico e ad altre organizzazioni jihadiste di reclutare molti militanti in tutti i Paesi della regione.

Peraltro, l’azione legislativa dei Governi ASEAN non riesce ancora ad incidere in profondità sulle strategie dei singoli gruppi terroristici e dimostra la dipendenza quasi totale dei Paesi coinvolti dagli aiuti – sia economici che militari – forniti da attori extra-regionali (USA e Australia su tutti). Per quel che attiene all’Indonesia, i legami diretti tra Jemaah ed al-Qaeda sono stati pressochè sradicati, i controlli della polizia di frontiera sono stati intensificati e le autorità continuano a monitorare le attività dei principali sospettati. Tuttavia tutto ciò non è finora bastato e la legislazione in materia di finanziamento del terrorismo evidenzia profonde pecche. Le norme contenute in un decreto del 2013 non arrestano infatti i flussi di denaro che molte associazioni islamiche caritatevoli destinano alle organizzazioni integraliste. Per di più, alcuni dei militanti detenuti continuano con le loro attività di proselitismo all’interno delle carceri indonesiane.

CONCLUSIONI – La Repubblica di Indonesia ha riconosciuto l’IS come gruppo terroristico internazionale. Il Presidente Joko Widodo sta valutando la possibilità di revocare la cittadinanza a coloro i quali si arruolano nell’esercito di al-Baghdadi e provvedimenti simili sono in discussione in Malesia e a Singapore. Se i singoli Paesi della regione hanno finora messo in campo iniziative credibili di contrasto all’integralismo religioso, sulla stessa direttrice si sta muovendo l’ASEAN, con risultati tuttavia deludenti. L’Associazione che riunisce le dieci nazioni del Sud-est asiatico ha adottato nel 2007 la Convenzione di Cebu sulla lotta al terrorismo, il cui testo appare per la verità ambiguo in molti passaggi. Anzitutto, non è presente una definizione univoca di “terrorismo”, tant’è che la stessa Convenzione rimanda esplicitamente ad accordi internazionali di varia natura. Inoltre, il documento rischia di essere soggetto alla libera interpretazione degli Stati parte in quanto ogni Governo conserva ampi margini di autonomia nel definire i criteri in base ai quali riconoscere o meno un’organizzazione come terroristica.

Raimondo Neironi

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

A Lee Kuan Yew, ex Primo ministro di Singapore e grande figura politica del Novecento, una volta fu chiesto cosa ne pensasse del fenomeno dell’estremismo islamico. Egli rispose che gli integralisti non sarebbero mai stati in grado di imporre il loro sistema teocratico in qualsivoglia regione del mondo. Nello specifico, riteneva che il progetto di instaurare un califfato islamico nel Sud-est asiatico a guida indonesiana fosse un’ipotesi assurda e impercorribile, giacché i musulmani di Malesia, Filippine e Thailandia vi si sarebbero opposti con fermezza. [/box]

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Raimondo Neironi
Raimondo Neironi

Dottorato di ricerca in Storia internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Per il “Caffè”, mi occupo di tre temi: politica, economia e ambiente; e due aree del mondo: Sud-est asiatico e Australia.

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