Analisi – Il progetto di scissione dei top club europei di calcio dalle principali competizioni europee ha incendiato gli animi dei tifosi di tutto il Continente. Ma tra debiti imponenti e proteste di piazza, l’idea di una Super Lega elitaria ha visto agitarsi dietro le quinte anche profonde trame geopolitiche ben poco legate allo sport.
LO STRAPPO
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, diceva un accanito tifoso del Bologna di nome Pier Paolo Pasolini. Non stupisce quindi il caos prodotto dal progetto di 12 club europei di fuoriuscire dal quadro istituzionale dell’UEFA per creare una nuova competizione, chiusa e a inviti, finanziata con 3,5 miliardi dal colosso JP Morgan. Un progetto di cui si vocifera da circa vent’anni, sempre accantonato grazie alle continue concessioni fatte ai grandi club, ma tornato di moda a causa della pandemia, che ha dissanguato le casse societarie già messe alla prova da anni di gestioni dissennate e allegre. Istituzioni sportive contro grandi club, dunque, con le principali società italiane a far da traino alla Super Lega dopo un decennio di delusioni sportive e sommerse da debiti crescenti. Come spesso accade con il calcio, tutto ciò che lo circonda è destinato a esondare dalla pura sfera sportiva per intrecciarsi con la società, l’economia, la storia e la politica. Il caso della Super Lega non fa eccezione a questa regola, sebbene ricoperta da una patina di ipocrisia da ambo i lati della contesa, tra chi si è stracciato le vesti in nome della purezza del gioco e chi ha provato il colpo di mano nel giro di una notte. Una trama quasi shakespeariana ma in salsa grottesca, se non fosse che l’unico movente, qui, erano i ben poco nobili debiti contratti senza requie. Una massa debitoria cresciuta negli anni e che ora spinge, in maniera tale da lasciare perplessi, i ricchi a chiedere ancora di più, senza né limiti né virtù. Giustificandosi con il bene del calcio da tutelare, mascherando la disperazione di conti che non tornano più per incapacità di gestione. Nel mezzo si è agitata la politica, tra Governi nazionali pronti a intervenire energicamente e crisi diplomatiche minacciate sullo sfondo.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Ceferin, Presidente dell’UEFA, in compagnia di Andrea Agnelli, Presidente della Juventus e promotore della Super Lega
LA BREXIT DEL PALLONE
Il naufragio della Super Lega ha un principale autore: Boris Johnson. Troppo grandi gli interessi in ballo della Premier League, troppo caro il prezzo da pagare per il Primo Ministro britannico in caso di secessione dei 6 club inglesi. Il campionato di Sua Maestà rientra a pieno titolo tra i più pregiati biglietti da visita della Global Britain sbandierata come approdo finale della Brexit. Una cartolina mondiale che esporta il football inglese verso ogni angolo del pianeta, capace di generare entrate fiscali annue di oltre 5 miliardi di sterline, rendendola una delle maggiori aziende del Regno. Un tracollo della sua attrattività dovuta all’uscita, o al disimpegno, dei principali club avrebbe comportato una frattura insanabile nella piramide calcistica inglese. Senza contare il solito, immancabile fiuto di Johnson per la pancia del Paese. Il calcio a queste latitudini resta un collante sociale unico, capace di tramandarsi di generazione in generazione e di aggregare comunità intere. Un legame inossidabile anche in tempi di globalizzazione del pallone, ulteriore tema sfruttato dalle multinazionali per vendere un calcio-business, ma pur sempre legato alla sua terra. Salvare la Premier League non significava soltanto salvare uno dei gioielli della Global Britain, significava mostrarsi al Paese duro il necessario per proteggere il calcio della gente. Guadagnare consensi brandendo la minaccia di riforme per prevenire ulteriori fughe in avanti grazie anche all’assenza di vincoli europei, ulteriore smacco per Bruxelles, che nel mentre tentennava cercando di articolare una risposta coerente con il proprio ordinamento. Così vitale per gli interessi inglesi da spingere uno dei più stretti collaboratori di Johnson a minacciare la compromissione dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi, che tramite la famiglia Mansour hanno le mani in pasta nel Manchester City, una delle società ribelli. Sebbene le rivelazioni giornalistiche degli ultimi giorni abbiano posto qualche dubbio sull’effettivo ruolo del premier nel contrastare il progetto, la sua figura ne esce al momento rafforzata in patria e all’estero.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – L’ultima vittoria di una squadra italiana in Europa risale ormai al lontano 2010
ASSENZE RUMOROSE
Ma a far rumore in questa brutta storia di debiti e geopolitica sono anche le assenze. Se il Regno Unito si è mosso subito per preservare l’integrità del proprio football spacciandolo per una grande vittoria di una Global Britain non più legata a Bruxelles, le Istituzioni comunitarie sono state molto più caute, pur nella condanna del progetto. In primo luogo, oltre che per le potenziali problematiche giuridiche, per mancanza di impulso da parte dell’asse franco-tedesco, sempre cruciale nell’azionare le leve del potere comunitario. Un silenzio resosi naturale dopo il gran rifiuto delle principali squadre nazionali, Bayern Monaco e Paris St. Germain, a unirsi ai ribelli. Un rifiuto spiegabile per i primi con l’ottima salute delle loro finanze, per i secondi con trame geopolitiche più ampie. A capo della società parigina, infatti, siede il fondo qatariota Qatar Investment Authority, mai avaro in fatto di spese faraoniche in questi anni di gestione. Il Qatar, tuttavia, ospiterà i prossimi Mondiali del 2022, quelli minacciati di boicottaggio da UEFA e FIFA in caso di Super Lega. Una minaccia che, se attuata, avrebbe totalmente compromesso la riuscita di un evento per il quale il Paese del Golfo ha investito, in maniera altamente controversa, ingenti risorse. Senza dimenticare la presenza di fondi sauditi tra i finanziatori della nuova competizione, una contesa quella tra Doha e Riyad che si protrae da anni e che ha vissuto come ultimo capitolo il conflitto sui diritti tv della Premier League detenuti dalla qatariota BeIn Sports (di proprietà dello stesso fondo che controlla il Paris St. Germain) e sostanzialmente piratati dai sauditi. Una controversia che già lo scorso anno aveva impedito al potente Bin Salman di sbarcare nel lussuoso mondo della Premier League investendo centinaia di milioni su una nobile decaduta come il Newcastle.
Dopo le furibonde polemiche, soprattutto in Inghilterra, di tifosi, stampa e politica, dunque, la Super Lega sembra ormai accantonata, per ora. L’impressione, tuttavia, è che sia solo il primo capitolo di una lunga lotta di potere che porterà prima o poi a riesumare una nuova competizione, a numero chiuso, che consenta ai grandi club di massimizzare gli introiti, orientarsi verso i nuovi mercati di clienti esotici non più tifosi, e stravolgere quel che rimane dello spirito del gioco. Tutto stritolato da trame geopolitiche che ormai spaziano su un fronte globale orientandone gli indirizzi futuri, strizzando l’occhio alle nuove generazioni e amplificando le diseguaglianze finché la bolla del debito e della speculazione dei grandi club crescerà.
Marginalizzando definitivamente chi misura ancora il tempo in 90 minuti e regola lo scorrere delle stagioni sulla base del calendario delle competizioni. Parafrasando Nick Hornby, verrà forse il tempo in cui supereremo davvero questa fase. Ma non oggi.
La Super Lega è morta dunque, viva la Super Lega.
Luca Cinciripini
Immagine in evidenza: “Stadio San Siro Milano” by marco_ask is licensed under CC BY-SA