La scarsa esposizione dell’economia uzbeka ai rischi della finanza internazionale e le condizioni di mercato favorevoli hanno contribuito, nell’ultimo decennio, al vistoso rialzo del PIL del Paese. Ma le criticità di alcuni settori produttivi come il cotone, di fatto monopolizzato dal Governo, gettano dei dubbi sull’efficacia dei programmi di finanziamento internazionali
MEMORIA STORICA E IDENTITÀ CONTEMPORANEA – Una superficie di poco meno di 450.000 km² per 30 milioni di abitanti, quasi la metà dell’intera popolazione dell’Asia centrale. Confini geometrici frutto dell’architettura politica di Mosca, tracciati per la prima volta nel 1922 all’indomani della costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Nessuno sbocco al mare, a parte quel che resta del Lago d’Aral, antico specchio d’acqua salata oggi parzialmente scomparso.
È un’istantanea dell’Uzbekistan, il Paese dalle cupole blu adagiato nel cuore della Via della Seta.
L’attuale repubblica presidenziale è una delle numerose entità statali sorte dalle ceneri dell’URSS nel 1991: guidato da oltre 20 anni dal Presidente Islom Karimov, il Paese è noto all’opinione pubblica internazionale per una forma di governo autoritaria e per le pesanti restrizioni imposte alle libertà individuali, ma anche per le enormi potenzialità delle risorse naturali e l’ingente disponibilità di idrocarburi.
Secondo quanto riferisce la Rappresentanza Permanente dell’Uzbekistan presso le Nazioni Unite, lo sviluppo economico è stato il punto focale dell’intenso programma di riforme varato dal Governo di Taškent nei primi anni Novanta. Le scelte programmatiche compiute dall’esecutivo e l’intenzione di plasmare uno Stato idoneo a fare il proprio ingresso tra le economie di mercato avrebbero reso l’Uzbekistan il primo tra i Paesi membri della Comunità degli Stati Indipendenti (CIS) a fronteggiare con successo le ultime due crisi globali, fino a raggiungere una crescita economica costante e durevole grazie a un’economia diversificata e a un’efficace politica di investimento. Sostanzialmente, i dati riportati nel rapporto prospettano una solida resilienza agli urti delle crisi finanziarie degli ultimi vent’anni e, dunque, una capacità di reazione agli shock negativi che desta delle perplessità in un Paese sul quale gravano debolezze strutturali e problematiche sociali non indifferenti.
Soprattutto alla luce delle ripercussioni della recessione globale dell’ultimo decennio, alcuni analisti – tra questi anche il sito Focus Economics – nutrono dei dubbi sull’attendibilità delle statistiche ufficiali presentate dal Governo, che anche nel 2015 – per l’ottavo anno consecutivo – ha registrato una crescita del PIL pari all’8%.
In realtà, nonostante i progressi compiuti dall’economia nazionale nel periodo successivo all’indipendenza, la storia recente dell’Uzbekistan resta caratterizzata da forti contrasti tra le variabili socio-economiche assunte come indicatori dell’emancipazione della repubblica post sovietica.
Da qui nasce l’esigenza di esaminare la questione anche da altri punti di vista, in modo tale da comprendere anzitutto come si snoda l’attuale processo di crescita, per poi avviare una riflessione sui termini di un binomio non proprio fortunato: sviluppo economico e rispetto dei diritti fondamentali della persona.
Fig. 1- Islom Karimov, Presidente dell’Uzbekistan dal 1991
LA FRAGILITÀ DI UN PAESE IN CHIAROSCURO – Le relazioni periodiche stilate dalla Banca Mondiale confermano che il tasso di crescita dell’economia uzbeka si attesta concretamente su una base annua pari all’8%: un trend positivo che negli ultimi anni ha permesso a Taškent di ridurre l’indice di povertà di circa il 14,5%, nonostante permangano ancora vistose disparità tra aree rurali ed aree urbane.
Al contrario, un aspetto dal quale pare non potersi prescindere è connesso alla scarsa incisività delle riforme interne volte a correggere gli squilibri e le inefficienze dell’apparato statale, nonché a creare un ambiente business friendly. Prioritariamente si osserva che l’economia nazionale continua ad essere guidata in larga parte dall’export di materie prime, un settore altamente vulnerabile se si considerano le notevoli fluttuazioni dei prezzi globali. In secondo luogo, l’espansione del sistema imprenditoriale appare seriamente condizionata dalle persistenti restrizioni normative agli investimenti diretti all’estero (FDI) ed all’internazionalizzazione delle imprese.
Il quadro finora abbozzato potrebbe alimentare delle incertezze tra i partner internazionali impegnati nelle azioni di cooperazione.
Uno scenario evolutivo di marca positiva è invece quello dipinto dal Gruppo della Banca Mondiale (WBG), che aspira a rendere l’Uzbekistan un Paese industrializzato a reddito medio-alto entro la metà del secolo. Negli otto anni trascorsi il WBG ha adottato un approccio a due velocità, che da un lato si è tradotto in un costante supporto creditizio e in servizi di consulenza, dall’altro ha assunto come obiettivo primario il potenziamento dell’assistenza tecnica e lo stimolo del dialogo politico.
Solo negli ultimi tre anni, l’implementazione della Country Partnership Strategy (2012-15) ha portato a termine 12 interventi del valore complessivo di oltre 1.467 milioni di dollari, grazie ai fondi stanziati dall’Associazione Internazionale per lo Sviluppo (IDA) e dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (IBRD). Alla luce dei risultati raggiunti finora e delle attuali priorità di intervento, i propositi individuati dalla nuova Strategia per gli anni 2016-20 sono stati raggruppati in tre aree principali: la crescita del settore privato; l’erogazione di servizi pubblici; la competitività dell’agricoltura e la modernizzazione del settore del cotone, di cui l’Uzbekistan è il sesto produttore mondiale con 3,35 milioni di tonnellate nel 2015.
Al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati, il WBG ha instaurato stretti rapporti di cooperazione con la Banca Asiatica di Sviluppo, la Banca Islamica per lo Sviluppo, l’Agenzia Giapponese per la Cooperazione Internazionale. Allo stesso modo, altre figure istituzionali quali l’Unione Europea e i Governi di Svizzera e Stati Uniti partecipano attivamente nel Multi-Donor Trust Fund deputato al supporto delle attività correlate alla prevenzione del lavoro minorile e del lavoro forzato.
Fig. 2 – La sede della Banca mondiale, nel cuore di Washington DC
IL PESO INGOMBRANTE DELL’ORO BIANCO – Il ritratto apparentemente lineare di un Paese in transizione suscita però delle perplessità, che scaturiscono inevitabilmente dalle frequenti denunce e segnalazioni di pratiche statali che si riassumono nella violazione sistematica dei diritti umani. Com’è stato ampiamente documentato nell’ultima inchiesta realizzata dal German-Uzbek Forum for Human Rights, organizzazione non governativa con base a Berlino, la società uzbeka sembra essere afflitta da piaghe intollerabili, di cui il lavoro forzato su larga scala impiegato nell’industria del cotone – lungi dall’essere considerato illegale – è divenuto l’emblema.
E non è certo una coincidenza che il 9 marzo scorso le organizzazioni internazionali Walk Free e Cotton Campaign abbiano lanciato una petizione rivolta al presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim, esortandolo alla sospensione dei finanziamenti (pari a 500 milioni di dollari) indirizzati a progetti di sviluppo agricolo in Uzbekistan. Altro campanello d’allarme è rappresentato dalle difficoltà riscontrate dai funzionari dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) incaricati di esplorare casi di reclutamento di bambini e adolescenti in età scolare, ma anche di insegnanti ed altri dipendenti pubblici, costretti ad abbandonare la scuola o il posto di lavoro nel periodo della raccolta del cotone. L’attività di monitoraggio è infatti parte integrante del Decent Work Country Programme, sottoscritto dall’Uzbekistan nel 2014, ai sensi del quale lo Stato si obbliga ad applicare gli standard internazionali di lavoro e a contrastare qualsiasi tipologia di sfruttamento lavorativo, condizione, quest’ultima, per usufruire dei finanziamenti erogati dalla Banca Mondiale.
Il neo-schiavismo dell’oro bianco è una vecchia ferita purulenta dell’Asia centrale e la «questione uzbeka» ne è solo l’esempio più eclatante, da quando nel 2007 i principali marchi tessili globali hanno promosso un boicottaggio di massa del cotone nazionale. Per questa ragione, oltre che per effetto della pressione esercitata dalla comunità internazionale, Taškent ha aderito nel 2008 alle Convenzioni ILO 138 e 182, rispettivamente sull’Età minima di occupazione e sulle Peggiori forme di lavoro minorile.
Tuttavia, gli accordi sulla carta possono ridursi ad una manciata di promesse in assenza di una concreta propensione all’azione e – com’è facile ipotizzare – l’abolizione di una simile prassi, per quanto anacronistica, comporterebbe per l’Uzbekistan la perdita di una rilevante quota di mercato a vantaggio di altri Paesi.
Fig. 3 – Raccolta manuale del cotone in Asia centrale
IL GUANTO DI SFIDA LANCIATO DALLA SOCIETÀ CIVILE – Il rispetto dei valori democratici e della dignità umana, quale condizione essenziale per la destinazione di incentivi economici ai Paesi beneficiari, ispira la linea di condotta della Banca Mondiale, come anche del Fondo Monetario Internazionale e dell’Unione Europea. Trattasi di una strategia di cooperazione fondata su meccanismi inequivocabili che permettono di valutare quando gli accordi di finanziamento debbano essere sospesi, nell’ipotesi in cui gli interventi realizzati o da realizzare comportino un arretramento dei principi fondamentali universalmente riconosciuti.
Da parte sua, la Banca Mondiale ha recentemente ribadito la ferma condanna di qualsiasi forma di lavoro forzato, confermando il proprio impegno attraverso il dialogo continuo con la classe dirigente uzbeka, anche attraverso il coinvolgimento attivo dell’ILO e di altre agenzie internazionali, in modo tale da rendere la raccolta del cotone pienamente meccanizzata entro il 2020.
Come accennato in precedenza, due interrogativi destano particolare preoccupazione, ossia le persistenti difficoltà nella conduzione del monitoraggio da parte del personale ILO e la riluttanza delle vittime dello sfruttamento ad avvalersi del meccanismo di feedback, deputato alla ricezione dei reclami, per timore di ritorsioni da parte delle autorità.
È evidente come il sogno uzbeko dell’exploit economico sia adombrato dalle tinte cupe di una crescita costante ma non trasparente, che pare essere divenuta il fine piuttosto che il mezzo del progresso – non esclusivamente economico, ma soprattutto sociale – di cui il Paese ha bisogno.
Simili riflessioni svelano alcune problematiche che difficilmente possono trovare soluzione all’interno di un dialogo meramente politico, a meno che la Banca Mondiale e gli altri donatori internazionali – in considerazione delle istanze provenienti dalla società civile – non impongano al Governo di fornire prove dimostrabili e precise delle azioni di contrasto al lavoro forzato, come condizione per l’erogazione dei finanziamenti.
Fig. 4 – Attivisti dei diritti umani manifestano a New York contro il lavoro minorile in Uzbekistan, settembre 2011
Luttine Ilenia Buioni
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
L’Uzbekistan è il Paese dell’Asia centrale che ospita il maggiore repertorio storico-artistico della regione. Quattro i siti proclamati dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità lungo l’antica rotta mercantile che univa la Cina all’Occidente: i centri storici di Bukhara e Shakhrisvabz, autentici gioielli architettonici; Itchan Kal, un museo a cielo aperto nella città di Khiva; Samarcanda, capitale dell’impero di Tamerlano nota soprattutto per il complesso tardo-medievale della Piazza del Registan. [/box]
Foto: Adeel Anwer