Nel serraglio economico mondiale, la catalogazione della Repubblica d’Irlanda risulta ancora abbastanza confusa: unico PIIGS a non bagnarsi nel Mediterraneo o atipica Tigre che ruggisce ben lontana dall’Asia?
Lo strano connubio di debito monstre, crescita schizofrenica e tuffi di recessione estrema spingerebbe a credere che nei forzieri dell’isola sia conservato l’oro dei lepricani – che la leggenda vuole pronto a svanire non appena si smetta di fissarlo. Fra PIL impazziti e maxi-multe europee, la cronaca recente non ha fatto altro che alimentare il mito: cerchiamo dunque di capire cosa si stia muovendo sotto il cielo d’Irlanda – e se il suo prossimo futuro si confermerà mutevole quanto il suo clima
GRANDI PESCI IN UN PICCOLO STAGNO – Per comprendere i dati provenienti dall’Éire bisogna ricordare che stiamo parlando di un Paese relativamente piccolo, dunque suscettibile di grandi sbalzi – specie in termini di percentuali. Con circa 4.6 milioni di abitanti possiamo paragonarne la popolazione (in costante crescita) a quelle di Emilia Romagna o Veneto, spalmate però su una superficie che è più del doppio di quella delle due regioni messe insieme.
In termini assoluti, anche l’economia irlandese appare contenuta: nel 2015 il suo PIL da 215 miliardi di euro era circa un decimo di quello italiano ed un sessantacinquesimo di quello dell’UE. Solo incrociando i dati la musica cambia: con un valore di poco inferiore a quello statunitense, il Fondo Monetario Internazionale riconosce infatti all’Irlanda il dodicesimo PIL pro capite al mondo – il primo all’interno dell’Unione Europea, escludendo il sottodimensionato Lussemburgo.
LA TIGRE IN ALTALENA – Riottosa e povera provincia dell’Impero Britannico sino al 1921 – anno della sua indipendenza- l’Irlanda riuscì ad evitare la distruzione del secondo conflitto mondiale grazie al suo status di Paese non schierato (almeno ufficialmente). Nonostante ciò il Paese arrivò in ritardo al “Miracolo”, conoscendo una crescita consistente solo negli anni Settanta, iniziati con l’accesso alla CEE (1973). Il boom non durò a lungo: il decennio successivo fece sprofondare il Paese nell’inflazione, ponendo però le basi per gli anni ruggenti della “Tigre Celtica”. In questo periodo, ingenti investimenti esteri e politiche di sostegno dell’economia generarono uno sviluppo accelerato; questo portò benessere, ma anche una massiccia bolla immobiliare collegata ad una forte esposizione bancaria. Con un copione già visto anche altrove, la crisi finanziaria del 2008 fece precipitare il valore degli immobili e si riverberò sul settore bancario, che – incapace di riscuotere i crediti – si trovò ad un passo dal collasso.
Nel fatidico bloody monday delle finanze pubbliche irlandesi (29 settembre 2008) il Governo – con una decisione quantomeno discutibile – si fece garante delle azioni e dei depositi delle banche del Paese. All’atto pratico (dati CONSOB) 85 miliardi di euro pubblici vennero utilizzati per salvare gli istituti di credito. Un salasso che fece esplodere il debito pubblico e costrinse il Governo a chiedere aiuto alla nascente Troika. Banca centrale europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale impacchettarono i finanziamenti nel “Programma di aggiustamento economico per l’Irlanda” del 2010. A livello finanziario la cura fu sicuramente efficace: dal 2013 e l’Irlanda è tornata a vendere debito sul mercato senza particolari problemi. Ora però sulle spalle dei suoi cittadini grava un lievitato deficit pubblico, oltre ai draconiani tagli al welfare necessari a frenare la spesa pubblica.
+26.3% – A tanto ammonterebbe la crescita del PIL irlandese nel 2015: un valore fantascientifico, soprattutto pensando alla crescita “zero e spiccioli” europea. Il dato è stato però subito sbugiardato dalla Central Bank of Ireland (CBoI), che nel suo bollettino di luglio segnalava l’indice come “gonfiato” dalle ristrutturazioni interne delle multinazionali aventi sede sull’isola: tali gruppi produrrebbero -o subappalterebbero- all’estero, registrando i profitti in Irlanda. Il dito dell’Istituto era puntato in particolare verso le compagnie recentemente rilocatesi nel Paese, gli investimenti aeronautici e i detentori di ingenti proprietà intellettuali. Il loro elevato valore renderebbe a tal punto irrealistici i dati sul PIL che lo stesso documento ufficiale consiglia di affidarsi ad altri indicatori, meno completi ma più rappresentativi, come la crescita della domanda interna (+5%).
Questo balzo del PIL ha suscitato nel Paese accese critiche, specie da parte delle opposizioni. In primis perché i dati sarebbero a tal punto falsati e difficili da appurare che ottenere degli indicatori “realistici” sull’economia sarebbe impossibile; di conseguenza, il Governo starebbe procedendo alla cieca, confidando nel protrarsi della crescita. In secondo luogo, perché l’isola sarebbe troppo esposta agli umori delle multinazionali, responsabili di circa il 75% dell’export. Queste compagnie sull’isola avrebbero spesso la sola sede legale – ovvero un ufficio o poco più- e dunque godrebbero di una grande mobilità: qualora un evento qualsiasi dovesse convincerle a lasciare l’Irlanda, potrebbero farlo con una minima spesa e in pochissimo tempo, affossando l’economia da un giorno all’altro.
LA MELA AVVELENATA – Per capire cosa possa spingere le multinazionali a fuggire dall’Irlanda, bisogna prima comprendere cosa le abbia attratte in passato. Fin dal dopoguerra – consapevole della debolezza della propria economia – il Governo si è impegnato a promuovere il benessere dei propri cittadini più attraverso politiche di sviluppo che con tentativi di redistribuzione della ricchezza. Tralasciando alcune pratiche poco cristalline di recente abbandonate, lo strumento più celebre è l’imposta sul reddito delle società, particolarmente bassa sin dagli anni Cinquanta. Oggi si attesta al 12,5% dei profitti, pari a quella cipriota; in Europa solo la Bulgaria fa “meglio” (10%), mentre il resto dei 28 spazia dal 15-20% dell’Europa Orientale al 30% di Germania, Francia e Italia. Con l’avvento del Mercato Unico, questa politica ha (semplificando) consentito alle imprese registrate sull’isola di vendere i propri prodotti in tutta Europa, versando però i contributi solo nelle generose casse di Dublino. Numerose aziende si sono quindi trasferite in Irlanda, portandovi lavoro e benessere ma anche privando gli altri Stati membri dei loro maggiori contribuenti.
Avendo però scelto di non cedere all’UE competenza in materia fiscale, le contromisure dei Governi nazionali si sono limitate all’invettiva: ciascuno di essi è libero di fissare la propria tassazione a piacimento e la concorrenza fiscale non è tabù.
Fig. 3 – La Commissaria Europea alla Concorrenza, la danese Margrethe Vestager
L’esecutivo irlandese si è però spinto oltre, accordando ad alcune aziende un trattamento fiscale speciale: è il caso di Apple, che a fine agosto ha portato la Commissione Europea ad indicare il Governo di Dublino come responsabile di aiuti di stato illegali. Ora è atteso il ricorso alla Corte di Giustizia Europea, con Dublino che difende la forma del proprio operato (legittimi tax ruling e legislazione fiscale conforme) e Bruxelles che ne denuncia l’illegalità della sostanza (tassazione inferiore all’1% e alterazione della concorrenza). Sta di fatto che – se è vero che una guerra commerciale è in corso fra USA e UE – l’Unione ha preso due piccioni con con una fava. Ora l’Irlanda si trova fra l’incudine e il martello: la Commissione non ha intenzione di cedere, anche in virtù dell’annunciato impegno contro paradisi fiscali ed elusione, e le multinazionali sono alla finestra, in attesa di capire se l’Irlanda sia ancora “il miglior Paese dove fare business” – come risultava dalla classifica Forbes del 2013 – o se sia arrivato il momento di fare le valigie.
LONDON HAS FALLEN – Se a causa della Brexit Londra piange, Dublino certo non ride: i prossimi mesi saranno cruciali per il Paese, che sarà impegnato a difendere i propri interessi ai tavoli negoziali dell’UE. Per ora le tendenzialmente catastrofiche previsioni economiche a medio-lungo termine serviranno solo a decidere quale linea adottare nelle trattative, e difficilmente si realizzeranno. Come in ogni altra crisi, infatti, la Brexit apre sia scenari recessivi che grandi occasioni di crescita. Se ad esempio dovesse prevalere la linea dura e la Gran Bretagna venisse tagliata fuori dal Mercato Unico Europeo, Dublino si ritroverebbe con il proprio principale partner commerciale segregato “oltrecortina”: i flussi di merci fra i due Paesi sarebbero sottoposti a controlli di frontiera e dazi, mentre quelli dei lavoratori verrebbero limitati dalle leggi sull’immigrazione e quelli dei capitali andrebbero incontro a severe restrizioni. Nemmeno un accordo fra i due Paesi basterebbe a rimuovere queste nuove restrizioni, poichè l’ambito ricade sotto la sovranità dell’Unione Europea. Al contempo però le imprese che utilizzavano Londra come testa di ponte nell’UE sarebbero costrette a cercare un nuovo pied-à-terre nel Mercato Unico; e la capitale celtica figurerebbe sicuramente fra le candidate, forte della sua già citata bassa tassazione e del suo “English-Speaking Environment”. D’altro canto, le similitudini fra Dublino e la City vanno poco oltre la lingua (e il clima): la città non dispone di un indotto per il terziario avanzato paragonabile a quello di Londra, e si troverebbe a concorrere con altri centri europei ben più attrezzati come Berlino, Francoforte, Milano o le città del Benelux. Nonostante il suo operato fin qui brillante, difficilmente basterà l’IDA, l’innovativa agenzia per la promozione degli investimenti diretti esteri in Irlanda, a convincere l’intera City a seguire le orme di Google, Facebook e tante altri gruppi del “dot-com” già traslocati (o in procinto di traslocare) oltre il Mare d’Irlanda.
Fig. 4 – L’esterno della Banca Centrale Irlandese, nel cuore di Dublino
In termini assoluti, la CBoI legge la Brexit a tinte fosche, prevedendo un inaridimento della fonte inglese di investimenti, domanda e lavoro, nonché un potenziale caso di profezia che si auto-adempie: la paura di un rallentamento dell’economia irlandese, a causa dei suoi stretti legami con quella britannica, potrebbe infatti spingere gli investitori a non esporsi più sull’isola, causando un rallentamento della crescita e una grave mancanza di investimenti. Per ora dunque l’unica certezza scaturita della Brexit è l’incertezza, acuita in Irlanda dalla questione Apple e in tutta Europa dalle discussione su una possibile riconfigurazione dell’UE, nonché dalla mancanza di una linea negoziale da parte di entrambi gli schieramenti. Il sipario è dunque ancora chiuso, quel che è certo è che Dublino siede in prima fila.
FÉ MHÓID BHEITH SAOR: GIURIAMO DI ESSERE LIBERI – Cerchiamo ora di rendere leggermente più comprensibile il movimentato arco costituzionale irlandese. Alle due tradizionali dimensioni della politica (libertarismo/comunitarismo, conservatorismo/progressismo), la movimentata storia recente d’Irlanda aggiunge un terzo asse, sommariamente etichettabile come “nazionalismo”. Le radici dei tre maggiori partiti irlandesi, infatti, affondano tutte nella sanguinosa e sfaccettata storia della Guerra d’Indipendenza, della Guerra Civile e dell’IRA (Esercito Repubblicano Irlandese), originariamente la sigla dell’armata che combatté contro gli inglesi per l’indipendenza, poi contesa da svariate organizzazioni di tipo terroristico.
Fig. 4 – Leinster House, sede del Parlamento della Repubblica d’Irlanda
Le elezioni parlamentari si sono tenute da poco (febbraio 2016) e dopo alcuni mesi di travaglio hanno restituito un Governo di minoranza guidato del principale partito (Fine Gael) grazie ad un accordo col secondo schieramento (Fianna Fáil) e il supporto di altre formazioni minoritarie.
Non è un mistero che i due principali partiti contino più differenze storiche che sostanziali e si siano dunque costruiti un’identità in termini spesso negativi (“noi siamo noi perché non siamo loro”); questo li ha spinti a lungo ad evitare alleanze, facendo la fortuna – assieme al sistema proporzionale – di quei piccoli schieramenti sempre disponibili a fornire una stampella al Governo. Il fatto che i due “pesi massimi” abbiano trovato un accordo è indicativo di quanto la crisi del 2008 abbia cambiato gli scenari.
Fine Gael occupa teoricamente una nicchia di centro/centro-destra; partito di stampo cristiano-conservatore in ambito sociale e liberale in economia, in Europa non è però affiliato all’ALDE ma al Partito Popolare, sebbene fino al 2016 avesse sempre e solo governato alleandosi con il Labour Party, tradizionale partito di sinistra. Fianna Fáil è invece il partito che per più lungo tempo ha detenuto la maggioranza in parlamento nella storia della Repubblica. Tendenzialmente conservatore, tendenzialmente di centro, leggermente di sinistra/working class – ma affiliato all’Alleanza Liberale al Parlamento Europeo – trovandosi al Governo nel 2008 (con il supporto dei Verdi e dei Democratici Progressisti) ha pagato a caro prezzo le politiche di austerità, passando dal 42% delle elezioni del 2007 al 18% di quelle del 2011, prima di risalire al 24% lo scorso febbraio.
L’IRA IMPLACABILE – Il partito che caratterizza veramente il panorama irlandese è però lo Sinn Féin. Questo schieramento socialista e nazionalista è da sempre portabandiera dell’unificazione dell’isola sotto la Repubblica; nel quasi mezzo secolo di scontri e violenze che portarono dal secondo dopoguerra ai primi anni Duemila, la sua storia è stata legata a doppio filo a quella dell’IRA, di cui è stato a lungo il braccio politico e con il quale ha spesso condiviso parte del gruppo dirigente. Sebbene siano ormai oltre dieci anni che la formazione militare ha abbandonato ufficialmente la lotta armata e le attività terroristiche – e ne siano trascorsi quasi venti dall’inizio dei colloqui di pace – nei territori inglesi dell’Irlanda del Nord una certa tensione persiste ancora. Alcuni gruppuscoli (in particolare la Real IRA) proseguono le azioni violente, perpetuando una divisione settaria oggettivamente anacronistica. Il partito è sempre più lontano da questi ambienti, e la scelta paga ottimi dividendi elettorali: a febbraio è divenuto la terza forza del Dáil (la camera elettiva della Repubblica d’Irlanda) e la presenza dei suoi rappresentanti non suscita più particolare scandalo nemmeno a Westminster, dove difendono da anni gli interessi della minoranza cattolica dell’Ulster.
Fig. 5 – Gerry Adams, leader dello Sinn Féin sin dal 1983
Quest’anno è però ricorso il centenario dall’Insurrezione di Pasqua del 1916 – fondamentale momento preparatorio per la nascita della Repubblica d’Irlanda -, repressa violentemente dagli inglesi. Le celebrazioni per l’evento hanno riportato d’attualità i sentimenti anti-britannici (se mai ce ne fosse stato bisogno) e la televisione nazionale ha tratto una mini-serie storica dai fatti (“Rebels”) risultata seguitissima. La Brexit non sarebbe potuta arrivare in un momento peggiore: il processo di pace fra IRA e Governo britannico si era svolto con la premessa che entrambi i Paesi fossero parte dell’UE e – seppur rifiutando l’Accordo di Schengen sulla libera circolazione a causa dell’opposizione di Londra – il confine terrestre fra Repubblica d’Irlanda e Ulster Settentrionale dovesse rimanere de facto aperto, “unendo” l’isola. L’obiettivo era stato raggiunto attraverso degli accordi fra i due Governi – accordi che la Brexit spazzerebbe via. Il Primo Ministro inglese Theresa May si è espressa contro il ritorno dei controlli di frontiera, ma non ha saputo presentare un piano per scongiurare quest’eventualità. I margini di manovra sono minimi – stretti fra regolamenti UE e il desiderio popolare di “taking back control”- ma non c’è dubbio che i negoziatori derogheranno anche l’inderogabile pur di evitare una chiusura dalle conseguenze veramente imprevedibili.
Francesco Castelli
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Grazie al fatto che la responsabilità dell’austerità è stata addossata essenzialmente al solo Fianna Fáil -e che “Europa” rimanga sinonimo di prosperità- l’euroscetticismo irlandese si è manifestato in maniera molto meno intensa che altrove; lo stesso Sinn Féin -unico partito euroscettico di peso- esprime critiche “di sinistra” alla costruzione europea, denunciando che il suo scopo dovrebbe essere la promozione dei diritti umani, non l’accrescere le differenze sociali attraverso politiche ultra-liberiste. Una linea simile è quella mantenuta dall’Anti-Austerity Alliance – People Before Profit, schieramento della sinistra profonda che non vorrebbe distruggere l’UE, ma “cercare di costruire un’Europa socialista e democratica, per fare gli interessi dei milioni [di cittadini, ndr] e non dei milionari”. A causa della forte connotazione conservatrice e tendenzialmente nazionalista dei maggiori partiti, movimenti di destra “lepenista” non hanno finora trovato spazio per emergere in Irlanda, limitando l’eurocritica ad una sola ala dell’emiciclo. [/box]
Foto di copertina di Ana _Rey Rilasciata su Flickr con licenza Attribution-ShareAlike License