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Il Kurdistan iracheno al voto per l’indipendenza: e ora?

Il 25 settembre scorso, nelle province del Kurdistan iracheno, si è tenuto il tanto atteso quanto ostacolato referendum consultivo per l’indipendenza. Il risultato in suo favore si è attestato intorno a una vera e propria percentuale plebiscitaria, ma la partita per l’indipendenza rimane aperta: la dura opposizione di Baghdad e delle potenze vicine, il mancato sostegno della comunità internazionale e le sfavorevoli condizioni economiche sollevano dubbi sulle effettive conseguenze del voto e sulle possibilità future per la regione

L’ESITO DEL REFERENDUM E LE DURE REAZIONI AL VOTO – Nonostante la diffusa opposizione e i numerosi tentativi di bloccare o almeno posticipare il voto per l’indipendenza del Kurdistan, lo storico e controverso appuntamento referendario del 25 settembre scorso si è tenuto come da programma e ha visto una schiacciante, quanto prevedibile, vittoria del “sì”. La Commissione elettorale curda ha annunciato un vero e proprio esito plebiscitario del referendum, con il 92.7% dei circa 3.3 milioni di curdi (e non) recatisi alle urne favorevoli all’indipendenza. Come più volte ribadito dal primo ministro curdo Barzani, il risultato del referendum non dichiara automaticamente l’indipendenza della regione, ma conferisce alle autorità di Erbil il mandato a negoziare la secessione con le autorità centrali di Baghdad e le potenze confinanti. Le immagini degli entusiasti festeggiamenti scoppiati già a poche ore dal voto si scontrano inevitabilmente con la dura reazione di Baghdad: in linea con la ferma opposizione dei mesi scorsi e l’accusa di incostituzionalità del referendum, in un discorso al Parlamento il premier al-ʿAbādī ha confermato che nessun dialogo sarà avviato con Erbil e  la sovranità irachena “verrà imposta in ogni distretto della regione con la forza della Costituzione”. Intanto, è entrato in vigore il blocco dei voli internazionali sugli aeroporti di Erbil e Sulaimaiyah, dopo l’ultimatum lanciato da al-ʿAbādī affinché il governo curdo restituisse a Baghdad il controllo di tutti gli aeroporti e dei posti di frontiera. Altrettanto dura la reazione della Turchia, secondo la quale l’esito referendario è “nullo e vuoto”. Dopo il recente meeting ad Ankara con il Presidente russo Putin, in cui si è ribadita l’assoluta importanza dell’integrità territoriale di Siria e Iraq, Erdoğan ha infatti speso parole durissime nei confronti di Barzani, accusandolo di “essersi dato fuoco da solo” con la proclamazione di un referendum in alcun modo concertato, né con il governo centrale iracheno né con le potenze confinanti. L’esercito turco, intanto, impegnato in esercitazioni militari, rimane schierato al confine con il Kurdistan, pronto ad intervenire, secondo Erdoğan, per difendere la sicurezza nazionale e preservare la stabilità della regione. Quanto all’Iran, il Paese ha annunciato la sospensione dei voli commerciali verso il Kurdistan, pur rimanendo aperta la frontiera terrestre.

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Fig. 1 – Festeggiamenti per le strade di Erbil a poche ore dal voto

LA SOSTENIBILITÀ ECONOMICA DELL’INDIPENDENZA – La dura opposizione all’indipendenza del Kurdistan iracheno passa anche attraverso la minaccia di sanzioni economiche, come già annunciato dallo stesso Erdoğan. La possibilità che la Turchia blocchi il valico di frontiera di Habur, unica uscita per i curdi verso Ovest, e chiuda l’oleodotto che trasporta il petrolio curdo verso i terminali di esportazione sulla costa turca nel Mediterraneo solleva dubbi sull’effettiva sostenibilità economica dell’eventuale indipendenza di Erbil. Il petrolio, concentrato principalmente nelle aree di Mosul, Erbil e nella contesa Kirkuk, rappresenta la principale fonte di reddito per la regione che, non avendo accesso diretto al mare, lo trasporta verso il Mediterraneo tramite tre oleodotti, il principale dei quali attraversa per circa mille km il territorio turco. Da quasi tre anni, attraverso la Turchia vengono esportati dal Kurdistan in media circa 550 mila barili di petrolio al giorno, in totale indipendenza e contro la volontà di Baghdad che ha reagito bloccando l’erogazione dei fondi del bilancio statale (previsti dalla Costituzione del 2005). Avendo puntato tutto sui guadagni petroliferi senza un’opportuna diversificazione economica, il Kurdistan iracheno da tempo vive una difficile crisi finanziaria. Il consumo interno supera la produzione, cosa che costringe la regione ad importare i beni e i servizi necessari acquistandoli coi proventi delle vendite petrolifere. Il prezzo del greggio è da tempo in calo, cosa che ha ridotto drasticamente gli introiti governativi, nonostante l’aumento significativo della produzione, e ha impedito il pagamento regolare degli stipendi di funzionari civili e forze armate o la sufficiente fornitura di energia elettrica. Il continuo conflitto con il governo centrale di Baghdad e la perdurante minaccia jihadista hanno scoraggiato le compagnie petrolifere estere dall’investire nella regione, mentre la prossimità con il conflitto siriano ha provocato un massiccio afflusso di profughi in fuga dalla guerra. Dal 2014 ad oggi, il debito accumulato dal Kurdistan è di circa 18 miliardi di dollari: un peso enorme, aggravato dall’endemica e dilagante corruzione, che evidenzia tutta la debolezza di una regione che deve affrontare in realtà più di un ostacolo per poter pensare di raggiungere la tanto agognata indipendenza. Sebbene l’opportunità e la convenienza di determinate sanzioni siano ampiamente discutibili, considerata la gigantesca mole di interessi in gioco, la sola possibilità per la Turchia di bloccare l’esportazione petrolifera curda verso il Mediterraneo rappresenta evidentemente una leva di non poco conto nelle mani di Erdoğan per piegare la volontà di una regione di fatto economicamente dipendente e politicamente isolata. Salvo il nemmeno poi così improbabile sostegno annunciato da Israele, infatti, persino il principale alleato militare del Kurdistan ha scelto di fare causa comune con Turchia e Iran per spingere Barzani a rinunciare al referendum. Pur continuando a finanziare la battaglia dei peshmerga contro l’IS, infatti, gli Stati Uniti hanno dichiarato di non riconoscere la legittimità del referendum e di sostenere “un Iraq unito, federale, democratico e prospero”. La stessa posizione è stata assunta da Nazioni Unite ed Unione Europea che, rispettivamente, hanno condannato l’inopportunità del referendum in un momento tanto delicato per l’intera area mediorientale e rinnovato il supporto alla sovranità ed integrità dell’Iraq.

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Fig. 2 – La raffineria di petrolio di Erbil, uno degli impianti più importanti nel Kurdistan iracheno

UN RAGIONEVOLE FUTURO – Così, senza alleati e senza poter rischiare una reale rottura né con Baghdad né con i Paesi vicini, prima fra tutti la Turchia, per il governo curdo di Barzani l’esito del referendum rappresenta più una mossa di politica interna che non una reale conquista per l’indipendenza del Kurdistan. Nel clima di divisione e rivalità politica tra il Partito Democratico del Kurdistan, l’Unione Patriottica Curda e il Gorran, l’appello al nazionalismo curdo e la proclamazione del referendum sono stati per Barzani un’occasione per consolidare la propria leadership e presentarsi alle elezioni presidenziali e parlamentari del prossimo 1° novembre come strenuo promotore di un’indipendenza che, al di là delle rivalità regionali e tribali, unisce tutto il popolo curdo. Allo stesso modo, l’esito plebiscitario sicuramente attribuisce ad Erbil un maggiore peso negoziale nel conflittuale rapporto con Baghdad e potrebbe consentirle di trattare finalmente la piena implementazione di quanto previsto dalla Costituzione del 2005 e di affrontare questioni esplosive quali lo status dei territori contesi, l’allocazione del budget e la gestione degli idrocarburi. Più che la secessione, infatti, nel prossimo futuro sembra più ragionevole e probabile che il Kurdistan iracheno riesca a negoziare il miglioramento o la ridefinizione della struttura federale del Paese. Ciò non potrà essere il risultato di decisioni unilaterali ma, per la stessa sopravvivenza della nazione curda, dovrà passare attraverso un cauto e non facile negoziato con le autorità centrali irachene e le potenze regionali vicine. Ciò che è certo, al di là di quali saranno gli sviluppi futuri, è che lo stato delle cose in Iraq non funziona e il referendum curdo dovrebbe essere un’altra occasione per cercare di correggere i difetti di un sistema al collasso.

Maria Di Martino

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

  • Il referendum si è tenuto nelle tre province della regione autonoma del Kurdistan e nelle aree rivendicate dal governo curdo e contese con l’autorità centrale di Baghdad (le province di Kirkuk, Dyala e Ninive). L’affluenza alle urne è stata del 76.61% degli aventi diritto al voto.
  • Per qualche cenno storico sulla c.d. “questione curda” e per un riepilogo su come si è arrivati alla proclamazione del referendum consultivo e sul dibattito che ha scatenato, si rimanda all’articolo dello scorso giugno “Kurdistan iracheno: sulla strada dell’indipendenza?”.[/box]

Foto di copertina di Kurdistan Photo كوردستان Licenza: Attribution-ShareAlike License

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Maria Di Martino
Maria Di Martino

Classe 1991, coltivo la passione per il mondo arabo fin dagli studi triennali all’Orientale di Napoli, dove lo studio della lingua, della storia e delle istituzioni musulmane mi ha insegnato ad osservare le dinamiche mediorientali con lo sguardo di un vicino consapevole della loro importanza. Laureata magistrale in Relazioni Internazionali alla Sapienza di Roma, con una tesi in diritto internazionale dell’economia e dello sviluppo, all’interesse per l’analisi geopolitica accompagno una personale sensibilità per i diritti umani, sognando un futuro di ricerca e azione per la loro difesa, poiché ancora idealisticamente convinta che parlare di Stati possa significare, prima di tutto, parlare di persone.

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