Dopo quasi un anno e mezzo di turbolenze, il Sudan e il Sudan del Sud tentano di riprendere un percorso di convivenza pacifica, trovando un’intesa sulla demilitarizzazione della zona cuscinetto tra le due frontiere e negoziando sulla cooperazione in materia di estrazione e trasporto del petrolio. All’orizzonte rimangono però molte incertezze, a cominciare dallo stato dell’economia e dallo sfruttamento delle risorse naturali nei due Paesi, pur non dimenticando l’assenza di una forza di sicurezza per vigilare sul rispetto degli accordi.
LO SCENARIO RECENTE – Lo scorso settembre l’accordo di pace tra Sudan e Sud Sudan sembrava essere ormai raggiunto. Il presidente sudanese, Omar al-Bashir, faceva sapere che si era finalmente raggiunta un’intesa sui vari punti di cui si era a lungo discusso, anche su quelli economici, riguardo ai quali effettivamente si erano incontrate le maggiori difficoltà. Infatti, da quando il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza, nel luglio del 2011, sono emersi immediatamente numerosi argomenti di rottura tra i due governi, in particolar modo per lo sfruttamento del greggio, abbondante proprio nel nuovo Stato. Nel mese di aprile dello scorso anno la tensione divenne altissima e Khartoum, dichiarando lo stato di emergenza, prese la decisione di sospendere la Costituzione e avviare l’embargo commerciale con il Sud Sudan. Il pretesto per la reazione di al-Bashir fu l’arresto di quattro persone accusate di essere spie pagate da Salva Kiir, presidente del Sud Sudan, e il conseguente schieramento di forze sudsudanesi lungo le frontiere. Già all’inizio del 2012 vi era stato un deterioramento delle relazioni tra i due Paesi, causato dalla pesante accusa mossa dal Sud Sudan contro al-Bashir circa il tentativo di ostacolare l’esportazione del greggio sudsudanese. Il problema nasce dal fatto che, dato che il Sud Sudan non ha sbocchi verso il mare, Juba è costretta a pagare ingenti tributi per raggiungere i porti sudanesi e da qui vendere, ma anche raffinare, il petrolio estratto. Per questo motivo Salva Kiir ha deciso di interrompere l’estrazione dell’oro nero, scelta che ha generato gravi ripercussioni nelle economie di entrambi i Paesi. Proprio nel mese di settembre era stato deciso di creare una zona cuscinetto per permettere il ritiro delle truppe ed evitare che queste potessero venire a contatto. È stato l’ennesimo tentativo fallito che ha comportato un’ulteriore perdita di tempo, dato che le reciproche promesse sono state puntualmente disattese.
GLI ULTIMI AGGIORNAMENTI – Il 9 marzo i due Paesi, grazie anche alla mediazione dell’Unione Africana, hanno firmato l’accordo per il richiamo dei soldati dalla buffer zone e l’impegno concreto a demilitarizzare l’area. Tutto ciò deve avvenire nel termine perentorio del 5 aprile, quindi si tratta di vedere se questa volta verranno rispettati gli impegni presi. Sono molti gli esperti che si dicono scettici del fatto che ci possa essere, in tempi così brevi, una totale smobilitazione. Proprio in questo senso si è espresso EJ Hogendoorn, vice direttore del “Crisis Group’s Africa Program”, che sottolinea come non sia prevista la presenza di nessuna forza di sicurezza che possa, in qualche modo, monitorare il rispetto di quanto previsto dall’accordo. Questa mancanza può inficiare gli sforzi dell’Unione Africana, dato che le parti in causa si accusano vicendevolmente di sostenere gruppi ribelli che, non sottoposti al controllo dei governi, cercano di provocare la reazione del nemico.
IL PIANO INTERNAZIONALE – Sul piano geopolitico il confronto tra i due Paesi tende a coinvolgere gli alleati di entrambi, soprattutto la Cina, da sempre alleata di Khartoum e disposta a parteggiare per la causa sudanese, al fine di recuperare parte dei proventi dell’estrazione del greggio. I giacimenti petroliferi, come detto, si trovano nei territori sudsudanesi, mentre le infrastrutture per la raffinazione sono in Sudan e sono state costruite in buona misura proprio dai cinesi. Dunque, Pechino vede in Khartoum non solo un partner politico, ma, in modo decisamente più pragmatico, anche un importante terminale economico (il 70% del greggio sudanese nel 2010 è stato acquistato dalla Repubblica Popolare). Per questo motivo negli ultimi mesi vi è stato un aumento delle visite ufficiali cinesi a Juba, alleata degli Stati Uniti, e addirittura è stato aperto un consolato cinese proprio nella capitale sudsudanese. La scelta di Salva Kiir di bloccare le esportazioni mirava a destabilizzare il governo di al-Bashir e scatenare una rivolta interna che indebolisse la sua leadership, ma l’obiettivo è stato raggiunto solo parzialmente. Proprio per questo mancato introito sono stati imposti numerosi tagli sia a livello di efficienza delle spese governative, sia sulla già risicata spesa sociale, con gravi ripercussioni su una popolazione stremata.
LA PARTITA DELLE RISORSE NATURALI – Il territorio del Sudan è stato sconvolto da una lunga guerra civile, durata quasi quarant’anni, e da emergenze umanitarie che hanno pregiudicato la crescita economica, nonostante la presenza di ingenti risorse naturali. Il referendum del 2011, attraverso il quale la popolazione sudsudanese ha avuto modo di esprimere la propria volontà, sembrava poter porre la parola “fine” ai conflitti che non solo hanno danneggiato l’economia, bensì hanno letteralmente lacerato la società. Si è già detto dell’importanza del petrolio e degli effetti che la questione sudanese produce nella comunità internazionale, eppure si deve in ogni caso tener conto anche dell’importanza della gestione delle risorse idriche e delle ripercussioni che vi possono essere nei confronti del vicino Egitto. I guadagni provenienti dalla gestione delle risorse naturali sono ridotti da una mala gestione, ma soprattutto dalla grave corruzione che domina in tutto il Paese. Lo stesso Presidente sudsudanese ha ammesso che la corruzione debba essere stimata attorno a quattro miliardi dollari, circa un terzo delle entrate fiscali.
SFIDE PER IL FUTURO – Gli ultimi sviluppi sembrano portare finalmente a un rappacificamento tra le due parti, che potrebbe consentire un po’ di respiro alle loro economie, fiaccate dallo stop alla produzione di greggio. Nonostante sia il Sud Sudan a poter gestire la situazione da una posizione di vantaggio, è necessario rilevare come Salva Kiir si trovi a controllare uno stato che ha ottenuto l’indipendenza soltanto due anni orsono e dunque è ancora in corso il processo di state building. Oltre alla necessità di poter disporre di risorse utili a rafforzare le neonate istituzioni, vi è anche la necessità di far partire l’economia di uno dei Paesi più poveri al mondo, cercando di diminuire la dipendenza dalla sola economia del petrolio. Per giungere ad una pace duratura e stabile, bisognerà poi anche affrontare, sempre sotto l’egida dell’Unione Africana, il problema dei confini e delle frontiere tra i due paesi, ancora lontano dall’essere risolto, nonostante la stipulazione di numerosi trattati e accordi. Una volta che saranno dibattute in modo risolutivo queste problematiche, insieme alla questione della gestione delle risorse naturali, si potrà parlare di pace tra Sudan e Sud Sudan.
Andrea Marras