Analisi – L’8 novembre 2024, Donald Trump è stato rieletto Presidente degli Stati Uniti, promettendo un ritorno alle sue politiche protezionistiche. Questa vittoria segna un punto di svolta non solo per l’economia americana, ma anche per i rapporti internazionali. Le sue proposte, che includono dazi universali e un maggiore isolamento economico dalla Cina, potrebbero avere conseguenze profonde sull’Unione Europea e sull’economia mondiale.
THE DONALD 2.0: OBIETTIVO REINDUSTRIALIZZAZIONE
Il secondo mandato di Trump si apre con un piano ambizioso: tariffe universali del 10% o 20% su tutte le importazioni e fino al 60% sui beni cinesi. Il fine dichiarato è quello di proteggere i lavoratori e le industrie americane, con particolare attenzione alla reindustrializzazione dei settori tradizionali come quello chimico, automotive e meccanico, duramente colpiti dalla globalizzazione degli anni Ottanta che ha trasferito molte attività produttive in Asia. Quella che era una strategia di espansione economica ha ora rivelato i propri limiti: settori strategici per la difesa e l’innovazione sono stati ridimensionati. Allo stesso tempo il Pentagono ha espresso perplessità per un apparato industriale incapace di rispondere adeguatamente alle sfide della sicurezza nazionale.
Trump intende invertire questa tendenza con un mix di deregulation, tagli fiscali e dazi per rendere di nuovo l’America “first” e, quindi, meno dipendente dalle importazioni.
Per raggiungere questo obiettivo la nuova Amministrazione promette dunque di adottare due tipi di politiche. Dal punto di vista interno, Trump mira all’efficientamento dello Stato, dal punto di vista esterno vi è un attaccamento (ideologico) ai dazi, pilastro della sua politica commerciale.
Questa strategia rappresenterebbe una svolta ancora più drastica rispetto alle politiche protezionistiche adottate durante la sua presidenza 2017-2021, quando erano stati imposti dazi su oltre 350 miliardi di dollari di merci cinesi. L’introduzione di tariffe universali, infatti, azzererebbe le distinzioni tra Paesi alleati e rivali, rischiando di allontanare partner storici come l’Unione Europea e il Giappone.
A ciò si aggiunge un ulteriore pericolo: Trump potrebbe sfruttare i dazi non solo per generare entrate doganali, ma anche come strumento politico. I Paesi desiderosi di ottenere un abbassamento delle tariffe si potrebbero trovare, infatti, costretti a offrire concessioni agli USA, come una maggiore spesa militare da parte dell’Europa o investimenti industriali dagli alleati asiatici.
Una possibile alternativa ai dazi sarebbe una svalutazione del dollaro, come avvenne durante l’Amministrazione Reagan con gli Accordi del Plaza del 1985. Allora, Stati Uniti, Germania Occidentale e Giappone concordarono di abbassare il valore del dollaro per riequilibrare le bilance commerciali. La manovra ebbe un impatto significativo sui mercati globali, al punto che fu corretta nel 1987 con gli Accordi del Louvre per evitare un deprezzamento eccessivo della valuta americana. Quella soluzione, però, richiedeva un consenso internazionale, difficilmente raggiungibile nell’attuale contesto geopolitico.
Pertanto, oggi i dazi rappresentano una soluzione unilaterale più immediata. Il Presidente Trump può varare queste misure senza dover negoziare con la Fed o il Congresso. Inoltre, mentre la svalutazione del dollaro non genera entrate dirette, i dazi portano nelle casse del Tesoro introiti significativi – stimati in circa 2.000 miliardi di dollari in dieci anni.
Tuttavia, simili politiche nel tempo lascerebbero l’economia degli Stati Uniti in una situazione peggiore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in loro assenza. Il Peterson Institute for International Economics ha prospettato uno scenario per cui al termine del mandato di Trump, nel 2028, il PIL reale statunitense calerebbe tra il 2,8% e il 9,7%: in termini monetari, ciò equivarrebbe a una perdita stimata tra 750 miliardi e 2.570 miliardi di dollari rispetto ai livelli del 2018.
Le politiche dell’esecutivo americano avrebbero, dunque, ingenti ripercussioni economiche: l’inflazione potrebbe raggiungere un picco compreso tra il 6% e il 9,3% già entro il 2026, mentre i prezzi al consumo aumenterebbero tra il 20% e il 28% entro il 2028.
Inoltre, colpendo le importazioni, i costi aggiuntivi si propagherebbero a cascata lungo l’intera catena di approvvigionamento, con un conseguente aumento dei prezzi che appesantirebbe i consumatori e i redditi delle famiglie americane, comprimendo il potere d’acquisto e aggravando le disuguaglianze economiche.
Fig. 1 – Trump ha promesso una guerra commerciale anche all’UE
RISCHI GLOBALI: UN’ERA DI NUOVE GUERRE COMMERCIALI
Le politiche di Trump non sono isolate, ma si inseriscono in un contesto globale in cui il protezionismo sta guadagnando terreno. L’introduzione di tariffe universali da parte degli Stati Uniti potrebbe innescare una reazione a catena, spingendo altri Paesi a rispondere con contromisure simili. L’Unione Europea, ad esempio, potrebbe imporre dazi su prodotti tecnologici americani, mentre la Cina, principale bersaglio del protezionismo americano, potrebbe intensificare la propria presenza in Asia, Africa e America Latina per compensare le perdite derivanti dal mercato statunitense. Questa dinamica rischia di consolidare un blocco economico guidato da Pechino, mentre l’Europa, intrappolata tra due giganti, potrebbe essere costretta a rafforzare le proprie strategie di autonomia industriale.
Già durante il suo primo mandato, i rapporti tra Washington e Bruxelles sono stati caratterizzati da tensioni, culminate nell’abbandono dell’accordo di libero scambio Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). L’attuale piattaforma di dialogo, il Trade and Technology Council (TTC), istituita nel 2021 per rafforzare la cooperazione transatlantica, rischia il naufragio sotto una nuova Amministrazione Trump, che potrebbe preferire trattative bilaterali con singoli Stati membri, minando così la coesione dell’UE.
Nonostante il significativo incremento degli scambi commerciali tra UE e USA tra il 2022 e il 2023 (con le esportazioni europee salite da 39,6 a 43,3 miliardi di euro e le importazioni da 24,2 a 31,1 miliardi) l’alleanza transatlantica è fragile. L’UE potrebbe dover affrontare nuove minacce di dazi, come accaduto nel 2018, quando Trump impose tariffe del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. La reazione europea non si fece attendere, con l’imposizione di misure mirate su beni simbolici americani, tra cui le motociclette Harley Davidson e il bourbon whiskey.
Sebbene l’Amministrazione Biden abbia almeno temporaneamente placato la disputa sulle tariffe di acciaio e alluminio, il ritorno di Trump lascia ora presagire nuovi scontri commerciali.
A dimostrazione di questo clima di preoccupazione, il valore dei titoli di Volkswagen, BMW, Mercedes-Benz e Porsche ha registrato una contrazione tra il 4% e il 7% non appena è stato evidente che Trump sarebbe stato rieletto Presidente. La minaccia di nuove tariffe potrebbe arrivare in un momento ancora più delicato per l’industria automobilistica tedesca, che sta già fronteggiando un calo dei profitti a livello globale e la rafforzata concorrenza cinese nel settore dei veicoli elettrici. Negli Stati Uniti anche le grandi case automobilistiche come General Motors, Ford e Stellantis rischiano di subire contraccolpi dalle politiche protezionistiche. La produzione di queste aziende si concentra in gran parte in Messico e, di conseguenza, una tariffa sulle importazioni di prodotti messicani colpirebbe duramente l’intera filiera produttiva nordamericana.
Fig. 2 – Il secondo mandato di Ursula von der Leyen comincerà con le dispute commerciali con gli USA da affrontare
SFIDE E OPPORTUNITÀ: L’EUROPA ALLA PROVA
Secondo Mario Draghi è inevitabile che qualsiasi decisione dell’Amministrazione Trump avrà un forte impatto sull’Europa, considerato che gli USA rappresentano il primo partner commerciale dell’UE, con uno scambio di beni superiore agli 800 miliardi di euro.
Tuttavia l’ex Presidente della BCE individua un margine di manovra: i dazi statunitensi contro la Cina, più alti e rigidi, differiranno da quelli europei, che potrebbero essere negoziabili. Un’azione unitaria dell’UE potrebbe condurre a trattative per ridurre i dazi, eventualmente compensando con un impegno ad aumentare la propria spesa per la difesa.
Il ministro del Commercio francese, Sophie Primas, ha ricordato l’importanza di un’UE compatta, capace di negoziare con fermezza o, se necessario, di rispondere con misure altrettanto incisive per difendere i propri interessi. L’unità sarà la chiave per affrontare la pressione statunitense senza scivolare in una guerra commerciale che danneggerebbe entrambe le parti.
“L’Europa si fa nelle crisi”, sosteneva Jean Monnet. È proprio nei periodi di incertezze e sfide, come quello di un’eventuale guerra commerciale a colpi di barriere tariffarie, che l’Unione Europea è chiamata a dimostrare resilienza e capacità di adattamento. La sfida è impegnativa, ma potrebbe essere l’occasione per rafforzare la sua autonomia strategica senza ripiegare sul protezionismo e ribadire il suo ruolo di protagonista nello scenario globale.
Filomena Ratto
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