Analisi – Potrebbe accadere all’antica città carovaniera di Hasankeyf, in Turchia. E non è l’unico problema che la futura diga di Ilisu potrebbe causare nella storica regione del Tigri e dell’Eufrate.
LA CULLA DELLA CIVILTÀ
Il 17 giugno scorso è apparsa sulle maggiori testate online la notizia che presto l’antica città di Hasankeyf, nel sud-est della Turchia, verrà sommersa per la creazione di una diga idroelettrica sul fiume Tigri. La notizia ha riscosso clamore perché, con i suoi dodicimila anni di storia, il sito, per posizione strategica, era il crocevia commerciale e politico tra l’Asia Centrale, la Persia, la Mesopotamia e l’Occidente, riportando alle persone la suggestione dei viaggi di Marco Polo e le antiche storie dei Caravan Serragli. Tale sorte, purtroppo, non è esclusiva di questa città ma anche di altri insediamenti archeologici sparsi lungo i circa 1.900 chilometri dei fiumi Eufrate e Tigri, in quella che i geografi greci chiamarono Mesopotamia, e che nel tempo sono andati perduti mano a mano che si edificavano nuove dighe. Gli effetti negativi della costruzione di questa diga andranno a colpire anche una regione più a sud, lì dove i due fiumi si ricongiungendo poco prima del Golfo Persico, in un bellissimo delta che delinea l’area delle paludi della Mesopotamia. In questa zona, non per niente definita la “culla della civiltà”, abbiamo la testimonianza delle prime organizzazioni gerarchiche e burocratiche in piccole città indipendenti (risalenti circa al 3.500 a.C.) e che oggi sono alla base di quello che noi chiamiamo Stato. Tale struttura sociale spinse questa civiltà, che si definiva sumera, alla nascita della scrittura – inizialmente utilizzata per indicare il contenuto di una giara sigillata, utile per lo stoccaggio delle derrate alimentari – che ci ha permesso, fin dove era possibile, di ricostruire il sistema sociale e la sua organizzazione. Un elemento dominante, come per ogni società, era l’acqua e la gestione dei sistemi di canalizzazione, che permettevano una diffusione dell’agricoltura anche in zone lontane dal corso d’acqua principale. Non è un caso che nella prima testimonianza storica di una battaglia, nella cosiddetta Stele degli avvoltoi, il motivo del contendere era un territorio, denominato Guedenna, particolarmente fertile e ricco di un sistema di canalizzazioni capillari.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Le rovine dell’antica città di Hasankeyf, minacciate dalla prossima costruzione della diga di Ilisu
PATRIMONIO DELL’UMANITÀ
Nel luglio del 2016 i quasi 5mila chilometri quadrati delle paludi, insieme ai siti archeologici sumeri di Uruk, Ur e Eridu, sono entrati nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità Unesco. I circa 300mila abitanti in questa area, divisi in piccoli villaggi, hanno vissuto durante la prima Guerra del Golfo del 1991 una forte persecuzione da parte di Saddam Hussein, che cercò addirittura di prosciugare le paludi stesse. Successivamente, a seguito del riconoscimento dell’UNESCO, il Governo iracheno si era invece impegnato per aumentare l’estensione della palude. Nonostante ciò, oggi, le paludi della Mesopotamia si sono ridotte di circa 1.200 chilometri quadrati, e 4mila persone sono state costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Nel 2009 l’Iraq poteva contare su 50 miliardi di metri cubi di acqua l’anno per alimentare il sistema agricolo (circa l’80%), l’utilizzo domestico e industriale. Oggi la disponibilità si è ridotta a 30 miliardi di metri cubi di acqua l’anno, ma il fabbisogno è rimasto invariato. A causa della siccità si sono ridotti anche i livelli delle acque della diga di Mosul, tanto da far riemergere un edificio palatino di epoca Mitanni (XV-XIV secolo a.C.) attualmente oggetto di scavo dell’Università di Tubinga. La riduzione della portata dell’acqua, aggiunta a siccità e scarsità di pioggia (con due record drammatici nel 2008 e nel 2014), nonché a un alto tasso di agenti inquinanti nei fiumi Tigri e Eufrate, ha portato alla diminuzione del numero di terreni fertili per l’agricoltura (sistema economico centrale in Iraq), una perdita che l’ONU stima intorno ai 250 chilometri quadrati l’anno.

Fig. 2 – I resti di un sito archeologico mesopotamico sommerso dalla diga Sultansuyu, costruita dal Governo turco negli anni Settanta / Foto: Emiliano Barletta (2005)
LE DIGHE DELLA MESOPOTAMIA
Una della cause, se non la causa principale, di questa crisi climatica va individuata dal numero di dighe sorte lungo i corsi dei due fiumi. La prima diga, lungo il corso dell’Eufrate, risale all’epoca ottomana, all’inizio degli anni Dieci del XX secolo, nella zona di Hindiya, oggi nota come diga di Nuaimiyah nell’Iraq centrale. Successivamente la Turchia, all’inizio degli anni Settanta, inaugurò una serie di dighe per l’ambizioso progetto denominato Gap (Güneydoğu Anadolu Projesi) e che ad oggi si compone di 18 delle 22 dighe totali previste sui fiumi Eufrate e Tigri. Nel 1976 Hafez al-Assad, padre dell’attuale Presidente siriano Bashar, ha inaugurato una diga sull’Eufrate (diga di Tabqa) denominata successivamente Lago Assad. Negli anni Ottanta Saddam Hussein costruì la diga sul Tigri, vicino alla città di Mosul, mentre un’altra venne costruita più a sud (Diga di Samarra). A ogni inaugurazione migliaia di persone, principalmente curdi, sono state sfollate e centinaia di siti archeologici, velocemente scavati, sono andati perduti. Circostanza che si è ripetuta durante la costruzione della diga di Ilısu, nel cuore del Kurdistan turco, con l’evacuazione dei primi 6mila abitanti degli 80mila previsti, dell’antica città romana di Hasankeyf e dei 200 villaggi della regione di Batman. Il lago artificiale che nascerà sarà di 313 chilometri quadrati, secondo solo a quello della diga Ataturk sul fiume Eufrate, e avrà una centrale elettrica che andrà a soddisfare il 2% del fabbisogno energetico della nazione. Questa caratteristica fa della diga un obiettivo militarmente sensibile e porterà a un maggiore controllo da parte del Governo di Ankara in una regione, a prevalenza curda, che fin dagli anni Settanta era terreno di scontro con il Partito Comunista Curdo (PKK), ritenuto dalla Turchia un gruppo terroristico. Gli allarmi legati al progetto, in relazione ai problemi di natura socio-ambientale, da parte dell’UNESCO e di diverse associazioni internazionali, tra cui Save the Tigris, hanno spinto banche e Istituzioni europee a ritirare i finanziamenti per la costruzione della diga, obbligando la Turchia a un auto-finanziamento che ha trasformato il progetto in un vero e proprio simbolo della sovranità turca.

Fig. 3 – Il castello arabo di Qal’at Ja’bar, salvato parzialmente dal bacino idrico della diga di Tabqa sull’Eufrate /Foto: Emiliano Barletta (2002)
UN ALLARME INASCOLTATO
Nel 2015, l’allora Presidente dell’Arab Water Council, Mahmoud Abu Zeid, intervistato dal giornale Al Monitor, disse che la regione del Vicino Oriente «è di fronte a un grave pericolo e all’esacerbarsi dei conflitti per l’acqua. E c’è una penuria di cibo che aumenterà con il crescere della popolazione: in mancanza di sforzi concertati rischiamo una carestia entro il 2025». Secondo uno studio del National Geographic quando la Diga di Ilısu sarà a pieno regime, la riduzione del flusso delle acque del Tigri sfiorerà l’80%. Questo porterà a una riduzione delle acque nelle dighe di Mosul e Samarra, causerà una diminuzione delle precipitazioni di pioggia annue (si stima un valore intorno al 25%) e conseguentemente condurrà a un aumento della temperatura. In questo scenario, attualmente già precario, il risultato più temuto – e più accreditato – vedrà la perdita di terreni agricoli, una diminuzione sempre maggiore della qualità dell’acqua (portando anche alla perdita della fauna ittica, altro elemento centrale nell’economia della regione) e quindi un aumento della migrazione interna dalle aree rurali verso le grandi città. Questa realtà, se confermata, dimostrerà che la previsione del 2025 non solo era corretta, ma che le antiche paludi della Mesopotamia sono destinate a scomparire.
Emiliano Barletta